Riproponiamo, come un mantra, la lettura dell’articolo già pubblicato nei giorni scorsi dal titolo “Globalizzazione e islamizzazione”. Preoccupante è la ripetitività delle strategie e delle azioni rispetto a una decina d’anni fa. Segnale certo che la cosiddetta politica non è tale, e si riduce agli interessi di conventicole, segnate in qualche modo e misura da sindrome mafiosa, dedite allo sfruttamento oppressivo dei popoli più che alla loro “buona” rappresentanza. (di Francesco Nosari)
15 Comments
angelomario
Non ho capito bene l'impaginazione dell'articolo. Mi par di capire che chi non ha letto la relazione convegnistica deve leggersela nel settore/categoria di Cultura cristiana, nel sito, cliccando sul titolo "Globalizzazione e islamizzazione" che compare nell'articolo, mentre chi l'ha già letto, come me, deve aggiungere qualche commento attualizzato, se ha voglia o ne sente il bisogno o il piacere: quelli che leggono l'articolo per la prima volta è utile che piazzino qui i loro commenti, perchè rischiano di non essere visti e di non incendiare il dibattito.
angelomario
Adesso dico la mia: abbiamo iniziato una guerra sulla base di informazioni neppure controllate. Prima che costituzionale, è lecito questo? E' lecito per gli sporchi rappresentanti statunitensi, inglesi e francesi, che erano sul posto dei loro bombardamenti un mese prima? Il feroce (e in po' matto, mi sembra) dittatore Gheddafi ha poi veramente commesso quello di cui è accusato? I diecimila morti ammazzati da Gheddafi sono una bufala clamorosa, lo sanno tutti: dov'è il governo ribelle, dove sono i ribelli-aspiranti democratici? La nostra politica estera è forse ora nuovamente eterodiretta? Chi comanda l'armata-coccodé?
angelomario
Ho visto che il nuovo (bassotto e ungherese) Napoleone si è fatto bello con la Clinton, forse più interessante della levriera di suo personale svago, in effetti piuttosto insulsetta, e si è preso gli improperi dei "cortissimi" e generalmente ignoranti politicanti italici, Infatti, Sarkò-Napò ha fatto da scudo alla vera artefice della "porcata", la "ilare" rivale della Monica Levinskj, appunto, alla quale dell'invasione nordafricana dell'Italia non solo non interessa nulla, ma anzi, se ne serve per accorpare o attirare l'Italia nell'orbita del nuovo protettorato anglo-franco-statunitense sull'Africa (come fanno ad escluderne le aree limitrofe, militarmente essenziali?). Così, di riflesso, si scardina l'Europa, la si indebolisce, secondo i desiderata della moglie del noto p…….ro (che almeno in quello sembra essere abile e arruolato). Il Nord Italia, la Padania, il mio è un grido di angoscia e di aiuto, deve urgentemente coordinare i propri comportamenti e le relative azioni con Germania e Austria…., alfieri della civiltà mitteleuropea, se no anche Bergamo, oggi ancora città norditaliana, diventerà una città "nord-nordafricana", col prevedibile dominio di bande criminali in qualche modo annesse o connesse alle mafie. E i partiti non dovranno più nemmeno mascherarsi da strutture para-europee: saranno mafiosissimi gruppi criminali, spesso tribali, come già familisticamente spesso sono, di occupazione/spartizione del potere e delle relative influenze. Con la benedizione…e altro, della suddetta moglie del p…….o, del bassotto e di Sua Maestà, l'incartapecorita Elisabetta.
angelomario
D'altra parte, se non ci fosse in ballo un così enorme interesse, troiesco fin che si vuole (al confronto, B. è un dilettante alle prime armi), ma reale, quando mai ci si sarebbe prestati ad aggredire, uccidere e, potenzialmente, anche sterminare la popolazione libica, ben sapendo che chi scampa al dittatore non scamperà facilmente ai bombardamenti?. Il Tappo francese, la regale Anticipazione Sepolcrale, la rivale della Monica come giustificano tutto questo? Come possono raccontare che tutto è fatto a tutela del popolo libico, del quale nemmeno un rappresentante o appartenente ha mai traversato il mare per rifugiarsi in Italia? Mai, dico, mai. Avrà pure un significato un simile inconfutabile dato.
angelomario
Non voglio ora apparire contraddittorio a chi legga i miei precedenti commenti, dei quali il presente commento costituisce una variante tendenzialmente solutiva, di soluzione pur parziale e ipotetica, ma osservo che in tutta la vicenda libica c’è un paradosso, rinvenibile anche nell’articolo di Nosari, per il quale chi si oppone tout court all’intervento sotto egida Onu per “proteggere” i civili libici – e di conseguenza contro il regime di Gheddafi, inutile nasconderselo – rischia a propria volta di essere vittima dell’antica sindrome del gendarme, cioè di supportare quello stesso immobilismo che si critica. La tentazione di imporre un ordine, di incasellare ogni Paese in una rigida scacchiera, di non tollerare mutamenti che aprano scenari di incertezza è infatti un retaggio del mondo bipolare della Guerra Fredda, o dell’idea unipolare dell’iperpotenza americana alla fine della storia, come qualcuno si era illuso dopo il crollo del Muro di Berlino.
L’oggettivo ridimensionamento del ruolo americano, assecondato – non si sa quanto volontariamente – da Obama, apre oggi spazi tanto imprevisti quanto vasti per sommovimenti di amplissima portata, a partire dal Maghreb e dal Medio Oriente. Vedere in qualunque rivolgimento politico l’opportunità per una presa del potere da parte di al-Qaeda o in ciascuna sollevazione popolare un’insidia per gli interessi delle democrazie consolidate – vuoi economici, vuoi legati alle migrazioni – pare la risposta a un riflesso che non vuole fare i conti con un quadro mutato e che non necessariamente sarà peggiore del precedente. Anche se potrà esserlo: si tratta di un quadro mutato in modo poco comprensibile per noi, che comunque deve mutare, rispetto al quale la politica è in terribile ritardo, ritardo tanto terribile da essere di minaccia a popoli come i nostri, che quel cambiamento non sono stati indirizzati a capire o prevedere. Certo, il cambio di atteggiamento verso il rais di Tripoli è riuscito infine a essere tanto repentino quanto tardivo. Tuttavia, per tale aspetto, ha fatto “onestamente” i conti con la storia in marcia: una rivolta interna che ha raggiunto massa critica e convinzione nella possibilità di un successo grazie al contagio positivo delle rivolte in Tunisia e in Egitto, almeno, così ci è stato fatto credere. E lo stesso intervento militare in Libia può non rispondere a una logica di puro cambio di regime a uso di qualche interesse particolare quando si limitasse davvero a impedire il massacro di inermi cittadini, lasciando poi alle logiche interne del Paese lo sbocco finale della crisi. La logica del gendarme alle incognite preferisce l’ingessatura di situazioni incancrenite, il pugno di ferro alla dinamica delle società, la quale può o deve – secondo i punti di vista – essere agevolata nella direzione di maggiori aperture democratiche e di fondamentale rispetto delle minoranze, ma che non può (e forse non deve) venire necessariamente guidata dall’esterno. E spesso, oggi, non può essere guidata perché non esiste oggettivamente un singolo attore che abbia volontà e capacità di incanalare lungo sponde precostituite il fiume impetuoso del cambiamento. Per quanto furbi, i "piccoli" protagonisti elencati nei miei precedenti commenti non sono neppur loro in grado di controllare il fenomeno.
Nel ribollente scenario mediorientale, che prima avevamo salutato come culla di un nascente movimento di modernizzazione, adesso rischiamo di vedere soltanto i rischi di un’involuzione fondamentalista e una sorgente di caos che porterà nuovi immigrati sulle nostre coste. Magari con un crescente pericolo di terrorismo. Purtroppo può essere vero. Ma le dinamiche avviate hanno bisogno di tempo e di respiro, i loro esiti non sono necessariamente scontati… Ciò che possiamo imparare, mentre ancora i nostri aerei pattugliano i cieli libici, è che la logica del gendarme, dell’ordine e dell’opportunismo non risulta più tanto facilmente praticabile.
Un mondo multipolare faticherà – per esempio – a tenere a bada un Iran aggressivo e sempre più vicino al dotarsi dell’arma atomica, ma potrà anche lasciare emergere dalla camicia di forza degli schieramenti quegli spiragli che permettono il risveglio di nazioni che sembravano condannate a rimanere sotto il giogo di autocrati utili solo a chi faceva affari con loro. Ciò che, secondo la nuova sensibilità maturata in quel campo, è riproduzione a livello statuale di connivenze paramafiose, se non direttamente di criminalità mafiosa. Ecco allora che evitare in futuro abbracci interessati e imbarazzanti con i leader che opprimono i propri popoli è la necessaria e coerente continuazione della scelta di intervenire per fermare Gheddafi. E che tale rifiuto sia la premessa per un nuovo ordine, frutto sofferto non soltanto di ingerenze con secondi fini e di velleità di mettere la storia al guinzaglio. Frutto sofferto di una effettiva lotta alla sempre più costringente concatenazione mafie-affari-politicanti-pseudopolitica.
Ciao.
noislamisti
Sandro Magister, dal sito http://www.chiesa.espressoonline.it: "Proprio mentre a Parigi ha la sua apertura solenne il "cortile dei gentili" voluto da papa Benedetto per un pacifico dialogo planetario tra uomini di fede e uomini lontani da Dio, da quella stessa Parigi e dal presidente francese Nicolas Sarkozy – come poi da altre capitali occidentali in ordine sparso – ha preso il via la più disastrosa Babele politica e militare che si sia mai vista in questo secolo, su scala internazionale.
Una Babele che si scarica sulla Libia. Spaccata questa tra Gheddafi e i rivoltosi. Ma attaccata da Stati a loro volta divisi da interessi e rivalità. Privi di un comando unificato. Privi di obiettivi comuni e di un minimo di visione globale".
Cosa dice o fa la Chiesa in una simile situazione? Nulla. Di oggettivo c'è "il silenzio delle autorità della Chiesa cattolica. Un silenzio che contrasta con i giudizi incalzanti che le stesse autorità della Chiesa, ai vari livelli, emettono ogni volta che si pone mano alle armi tra gli Stati e dentro gli Stati. Ogni volta che è compiuto un eccidio.
Certo, per proteggere chi resta esposto a nuove aggressioni, la Chiesa fa largo ricorso alla virtù della prudenza. Il realismo politico non le è estraneo. I suoi fedeli sono presenti in tutti i continenti e in alcuni luoghi affrontano rischi mortali.
Ma anche se cauto, il giudizio della Chiesa è di norma netto. Non equivoco. E neppure dogmatico. Giovanni Paolo II fece di tutto per contrastare la seconda guerra del Golfo, in Iraq, ma mai condannò teologicamente e moralmente quei cattolici che la ritenevano giusta.
Questa volta, invece, ogni giudizio tace".
Certamente, come rileva anche Sandro Magister, ha attirato l'attenzione dei partecipi, di persona o mediante la radiotelevisione, il fatto che
Benedetto XVI, all'Angelus di domenica 20 marzo, ha invocato protezione e soccorsi per i cittadini libici inermi e ha pregato perché "un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull'intera regione nordafricana". Però, sulla guerra non ha speso una parola, un accenno. Perché?
Perché, spiega Sandro Magister, questa – del "no comment" sulle azioni militari intraprese in Libia da alcuni governi occidentali – pare essere la linea adottata dalla segreteria di stato vaticana. "L'Osservatore Romano", che esprime istituzionalmente tale linea, ha titolato a tutta pagina, mentre gli attacchi missilistici e aerei erano in pieno svolgimento: "Un orizzonte di pace per la Libia". Con subito sotto la foto del papa con una colomba, e il rimando alla sua preghiera e al suo appello umanitario.
Quella dell'"ingerenza umanitaria" è l'unica ragione alla quale le autorità della Chiesa si sono appellate negli ultimi decenni per giustificare un intervento armato in un determinato paese.
Giovanni Paolo II lo invocò in difesa della Bosnia e poi del Kosovo, quando le potenze occidentali erano riluttanti a intervenire. E fece capire – inascoltato – che l'avrebbe voluto anche per il Rwanda, quando il genocidio era alle porte.
Analogamente, ma con maggior distacco e prudenza, Benedetto XVI ha assegnato agli Stati e alla comunità internazionale la "responsabilità di proteggere" i popoli dalle aggressioni, nel discorso da lui tenuto a New York, alle Nazioni Unite, il 18 aprile 2008.
La responsabilità tocca a loro… e che se la tengano. Il giudizio sarà esterno e successivo.
Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della conferenza episcopale italiana, ha ribadito lo stesso principio quando ha detto, pochi giorni fa: "Il Vangelo ci indica il dovere di intervenire per salvare chi è in difficoltà".
Ma tale principio può essere applicato al caso della Libia? A sentire il più autorevole dei testimoni cattolici sul campo, il vicario apostolico di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli, no. "Non sono le bombe che possono darci la pace", ha detto in un'intervista del 22 marzo alla Radio Vaticana.
E in un'intervista del giorno dopo a "Il Foglio" il vescovo Martinelli ha espresso con parole ancor più drastiche la sua totale contrarietà ai raid aerei occidentali: "Mi fanno ridere coloro che dicono che l'intervento militare in Libia è per fini umanitari".
In effetti, più che lo sterminio di una popolazione inerme e innocente ad opera del regime di Gheddafi, in Libia risulta essere in atto una vera e propria guerra civile, con i rivoltosi anch'essi armati. Una guerra civile che l'intervento militare di alcuni stati occidentali pare lontano dal risolvere fruttuosamente.
Tanto più colpisce il "no comment" sulla Libia delle autorità vaticane, quanto più tale neghittosità si estende, da qualche tempo, all'intero quadrante arabo e mediorientale.
Ciò che accade nello Yemen, o nel Bahrein, o in Egitto sembra essere registrato dai diplomatici vaticani con la stessa rinunciataria passività con cui prendono atto del caso libico.
Anche qui "L'Osservatore Romano" riflette diligentemente gli indirizzi della segreteria di stato. Nel riferire, ad esempio, della vittoria schiacciante dei "sì" nel referendum del 20 marzo sulle varianti alle costituzione in Egitto, il giornale della Santa Sede ha riportato, come unico giudizio sul voto, quello espresso da un consigliere della Casa Bianca, secondo cui "i risultati del referendum rappresentano un successo per la transizione democratica in uno dei paesi chiave della regione".
Quando invece quello stesso giorno, il 22 marzo, e sullo stesso avvenimento, il referendum egiziano, il quotidiano dei vescovi italiani "Avvenire" ha pubblicato un editoriale di Luigi Geninazzi di intonazione opposta, come si evinceva già dal titolo: "Prime disillusioni sulla primavera egiziana. Vincono i Fratelli Musulmani e i pro-Mubarak".
In effetti, quel risveglio democratico che si era intravisto tra gennaio e febbraio al Cairo in piazza Tahrir, con musulmani e cristiani copti che fraternizzavano, è oggi più un ricordo che una realtà.
La tregua che era seguita al Natale di sangue di Alessandria d'Egitto ha infatti lasciato il passo in questo mese di marzo a una ripresa delle aggressioni islamiste contro i copti e le loro chiese.
E ora, la vittoria dei Fratelli Musulmani al referendum costituzionale ha messo il sigillo definitivo su quell'articolo 2 che indica nella sharia islamica la fonte principale della legislazione, anche per il futuro Egitto. Un durissimo colpo – ha commentato "Avvenire" – per la popolazione cristiana d'Egitto, per la quale "la riforma della costituzione ha sempre rappresentato una questione di vita o di morte".
"La Libia vacilla. Ma intanto il Libano è già perduto", ha titolato http://www.chiesa un suo servizio d'inizio marzo, con riferimento allo strapotere di Hezbollah in quello che fu l'ultimo regno cristiano d'oriente.
Oggi la Libia è ancor più a rischio. In Egitto, che per molti arabi è il paese guida, gli islamisti guadagnano sempre più terreno. Nello Yemen, dopo una strage a freddo di 52 manifestanti nella sola giornata di venerdì 18 marzo, ambisce a salire al potere un generale, Ali Muhsen Saleh, anche lui privo di qualsiasi credenziale democratica. Nel Bahrein la monarchia sunnita ha dovuto ricorrere all'esercito della vicina Arabia Saudita per sottomettere la popolazione sciita ribelle, appoggiata dall'Iran. A Gaza Hamas è più spavalda, mentre a Gerusalemme esplodono nuove bombe. E più lontano, in quel Pakistan del "puro islam" che vuol mettere a morte la cristiana Asia Bibi e ha appena visto il martirio del ministro Shahbaz Batthi, altri cristiani sono stati uccisi il 23 marzo davanti a una chiesa di Hyderabad.
matteo
Sembra pazzesco, ma questi "volonterosi" non sanno cosa fare, perchè non sanno di preciso con chi prendersela, visto che non possono massacrare la popolazione, se no B. fa la spia e toglie le basi. Forse i tre tristanzoni, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, che qualche dio li strafulmini, pensavano di fare in fretta, non si aspettavano un casino del genere. Perché adesso sul terreno debbono andarci loro, e basta leggere i resoconti delle precedenti guerre in Libia per capire come la cosa sia davvero poco igienica. Dall'altra parte, il governo fantoccio non riescono nemmeno a metterlo in piedi, e Gheddafi è ancora la personalità politica e tribale più importante. Nemmeno l'Islam si fida della coalizione e dei suoi fantocci, e non vede nella caduta di Gheddafi una possibilità di avanzamento delle sue posizioni. Anzi, leggendo i resoconti in inglese di Al Jazeera sul video, mi sembra che il mondo islamico si stia irritando parecchio contro i volonterosi soccorritori (di chi e di che cosa, di preciso?). E' una brutta e sporca guerra.
don M.
Il Papa, poco fa, subito dopo la preghiera dell'Angelus domenicale, ha espressamente chiesto uno stop ai combattimenti e un ritorno alla concordia in Libia e nell'intera Regione nordafricana. E, cosa ancor più importante, ha rivolto un accorato appello agli organismi internazionali e a quanti hanno responsabilità politiche e militari per l'immediato avvio di un dialogo, che sospenda l'uso delle armi.
Benedetto XVI ha affermato che cresce la Sua trepidazione per l'incolumità e la sicurezza della popolazione civile e la Sua apprensione per gli sviluppi della situazione, attualmente segnata dall'uso delle armi ed ha osservato e fatto osservare come nei momenti di maggiore tensione si fa più urgente l'esigenza di ricorrere ad ogni mezzo di cui dispone l'azione diplomatica e di sostenere anche il più debole segnale di apertura e di volontà di riconciliazione fra tutte le Parti coinvolte, nella ricerca di soluzioni pacifiche e durature. Quindi ha rivolto un accorato appello agli organismi internazionali e a quanti hanno responsabilità politiche e militari per l'immediato avvio di un dialogo che sospenda l'uso delle armi.
Ergo, anche la diplomazia vaticana non ci vede chiaro in tutta questa faccenda… e non si fida di quanto messo in atto dai cosiddetti volonterosi.
Bergamo.info
La città di Ajdabiya è caduta nelle mani degli insorti. Per le forze governative, però, si tratta di una ritirata tattica: «I ribelli avanzano solo grazie ai raid occidentali», ha detto il viceministro degli Esteri libico a Tripoli. I miliziani denunciano: finora 8 mila morti nella rivolta. «La missione in Libia sta avendo successo», ha detto il presidente Obama. Cosa sta succedendo effettivamente? A esclusive spese nostre?
bartolo
Ormai è chiaro che stiamo combattendo insieme a chi ci sta facendo la guerra economica: saremo anche furbi, ma a me sembra una follia.
Aristide
Secondo alcuni, Gene Sharp, un bostoniano di 83 anni, autore del libro “From dictatorship to democrtacy” – tradotto in 28 lingue – è l’ispiratore e stratega dei movimenti di destabilizzazione delle dittature – ieri in Serbia, in Ucraina, in Georgia, in Kyrgyzstan, oggi in Tunisia, Egitto e Libia – in senso favorevole a una confluenza sotto l’ombrello americano. Naturalmente, non è detto che le cose stiano proprio così. Un manuale senza le condizioni oggettive per la rivoluzione non basta. Però un Lenin inviato dai tedeschi in vagone blindato in Russia (così racconta la vulgata) può aiutare. È solo un dubbio, che potrebbe essere una ragione sufficiente per sfogliare questo libro.
Il libro si trova in rete tradotto nelle sguenti lingue: Amharic, Arabic, Azeri, Belarusian, Burmese, Chin (Burma), Jing-paw (Burma), Karen (Burma), Mon (Burma), Chinese (Simplified Mandarin), Chinese (Traditional Mandarin), English, Farsi, French, Indonesian, Khmer (Cambodia), Kyrgyz, Pashto, Russian, Serbian, Spanish, Ukrainian, Tibetan, Tigrigna, Vietnamese . Ci sarà una ragione, o no? È disponibile, come si vede, la traduzione in farsi. Come dire: intellegenti pauca.
Kamella Scemì
Vorrei ricordare dove sta l'origine del protagonismo francese in Libia, così come in Costa d’Avorio, e della dottrina interventista di Sarkozy. DANIELE ZAPPALÀ, su Avvenire di oggi, lo spiega nel dettaglio. Ascoltiamolo:
Due offensive delicate in Libia e Costa d’Avorio promosse a tempo di record con l’avallo dell’Onu e due leader finiti nel mirino di Parigi: Muammar Gheddafi e Laurent Gbagbo. Da qualche settimana, decisamente, la Francia non assomiglia più al cuore della 'Vecchia Europa' attendista biasimata nel 2003 da Washington ai tempi del contenzioso diplomatico sull’intervento in Iraq. Il presidente Nicolas Sarkozy, alias 'Sarkò l’americano', e l’ex premier Alain Juppé, fresco di nomina a capo della diplomazia, si sono trasformati nel tandem agguerrito di un Paese pronto a mostrare i muscoli. Del resto, finora, senza destare forti contestazioni presso un’opinione pubblica nazionale pur tradizionalmente suscettibile.
Per convincere l’Onu ad avallare i due interventi militari, con il loro corollario di sanzioni e moniti, la diplomazia francese ha invocato il dovere d’ingerenza umanitaria. In Libia, occorreva «evitare un bagno di sangue a Bengasi». Altrettanto imperativo era «difendere le popolazioni » in Costa d’Avorio.
Ma accanto a questi argomenti, la virata interventista di Parigi è nata pure in un contesto molto speciale. Finora, la scommessa diplomatica più ambiziosa dell’era Sarkozy era stata l’Unione per il Mediterraneo (Upm), lanciata in gran pompa a Parigi nell’estate del 2008 e presto rimasta paralizzata in mezzo alle tensioni regionali. Nella sua versione originale, il progetto presupponeva e sanciva l’intesa speciale di Parigi con 'due pilastri arabi': l’Egitto di Mubarak e la Tunisia di Ben Ali.
Proprio i due regimi travolti nei mesi scorsi dalla 'primavera araba', con il conseguente e brusco sgretolamento di molti piani geopolitici francesi. Lo smacco diplomatico per Parigi è stato particolarmente violento anche per via di vari scandali rivelati dalla stampa. In particolare, i viaggi di ministri francesi a spese dei clan affaristici e familiari al potere proprio in Tunisia ed Egitto.
Ma il contesto francese è da mesi tempestoso pure sul fronte prettamente interno. La fine della legislatura si avvicina e Sarkozy sembra aver perduto lo scettro di 're del consenso' con cui era salito all’Eliseo nel 2007. Al di là dei sondaggi impietosi, l’ha dimostrato pure la batosta appena subita dai neogollisti alle elezioni provinciali, ultimo scrutinio nazionale prima della nuova corsa per l’Eliseo che culminerà nella primavera dell’anno prossimo.
Ai vertici di questa 'nuova' Francia, il desiderio di rivalsa abbonda, accomunando del resto sul piano personale la coppia Sarkozy-Juppé. Quest’ultimo, già per due volte a un passo dal tracollo politico (sciopero generale nel ’95, quand’era premier, poi la pesante condanna giudiziaria del 2004), non è giunto al Quai d’Orsay per offrire cocktail mondani. A Parigi, non si vedeva da lustri un capo della diplomazia tanto influente. Il 'ministro di Stato' (preminenza all’interno del governo) ha imposto fin dal primo giorno a gran voce le proprie condizioni a Sarkozy, ridimensionando il perimetro d’azione del premier François Fillon.
Se la molla interventista è scattata in questo contesto, almeno due condizioni hanno poi favorito il desiderio di grandeur: il fatto di detenere la presidenza semestrale del G8/G20, così come il recente ritorno della Francia nel Comando integrato della Nato. La 'svolta atlantista' di Sarkozy ha in gran parte dissipato i vecchi sospetti di Washington verso il ruolo di alleato 'irregolare' a lungo interpretato dalla Francia. Paradossalmente, si sono accresciuti così i margini di manovra di Parigi di fronte a un’Amministrazione americana molto restia ad esporsi eccessivamente su nuovi fronti.
Ma mettendo in gioco a tal punto la propria statura internazionale, la Francia entra pure in un terreno d’azione saturo d’incognite. Le domande imbarazzanti rivolte a Parigi si accumulano già. Ad esempio: fino a che punto la recente chiusura mostrata sul fronte dell’immigrazione può considerarsi coerente con il 'senso di responsabilità' internazionale invocato adesso energicamente dall’Eliseo e dal Quai d’Orsay?
Come mostra il confronto con l’Italia sull’emergenza sbarchi, la Francia non potrà più defilarsi facilmente di fronte alle sfide contigue a tutti i nuovi 'fronti' d’intervento. Reclamare una nuova grandeur non basta. Le sbavature militari e le 'ombre' circa il pieno rispetto del mandato Onu in Libia e Costa d’Avorio, del resto, rischiano già di rincarare in fretta il conto.
L’attivismo ha motivazioni sia di politica di potenza sia interne: in calo il consenso dell’Eliseo in vista del voto Molte le incognite sulla svolta bellica e «atlantista», le due missioni rischiano di non produrre gli effetti desiderati
Grazie.
Kamella Scemì
Riporto da http://www.Avvenire.it del 7 aprile 2011:
Del Zanna: Cristiani d’Oriente, la difesa ottomana
Si parla molto del ruolo dei cristiani del Medio Oriente nelle trasformazioni delle cronache di questi giorni. C’è il rischio, però, di cadere in letture parziali, figlie di un’analisi legata più alla conoscenza di oggi che alla storia di questo angolo cruciale del mondo. Perché, allora, non provare ad analizzare realmente che cosa c’era c’era prima dei regimi che ora vacillano? È quanto propone Giorgio Del Zanna, docente di storia dell’Europa Orientale all’Università Cattolica di Milano, nel saggio storico I cristiani e il Medio Oriente (1798-1924), appena pubblicato da Il Mulino (pp. 368, euro 25). È una ricognizione dettagliata sul ruolo dei cristiani nella stagione delle riforme dell’impero ottomano, fino all’epilogo segnato dalla sconfitta nella Prima Guerra mondiale. Un’analisi che rivela parallelismi interessanti con la situazione di oggi.
Siamo abituati a sentire parlare dei cristiani del Medio Oriente attraverso la categoria della minoranza. Lei invece offre un altro tipo di sguardo, perché?
«Quello ottomano era un mondo plurale, con comunità tra loro diverse che vivevano dentro il sistema imperiale ciascuna con un ruolo molto attivo. Era il modello dei millet, comunità cui era lasciata un’ampia autonomia rispetto alla legge islamica in cambio della lealtà all’impero. Dentro a questa cornice i cristiani – in particolare – erano una componente estremamente dinamica: il loro protagonismo andava ben oltre il loro spessore numerico. Nel processo di modernizzazione delle società del Medio Oriente che avvenne tra l’Ottocento e l’inizio del Novecento giocarono un ruolo molto importante. Diventeranno minoranza solo dopo, quando il sistema imperiale entrerà in crisi e anche qui si affermeranno i nazionalismi».
Nel libro lei la definisce un’età dell’oro dei cristiani dell’Oriente. In che senso?
«Intanto fu una stagione di grande crescita demografica: guardando all’intera area arrivarono ad essere il 20% della popolazione, quando oggi sono meno del 6%. Ma soprattutto furono i grandi mediatori tra il mondo ottomano e l’Europa. Beneficiarono delle politiche riformiste dell’impero, anche in termini di parità. E questo permise loro di mettere in circolo delle idee, di lavorare da protagonisti per la modernizzazione della società. Fu una stagione molto particolare che oggi abbiamo completamente dimenticato. Nella lettura della storia si dà molta centralità al tema dell’islam, dimenticando il fatto che tra il XIX e l’inizio del XX secolo quello ottomano era, appunto, un mondo plurale. In un certo senso la tesi dello scontro di civiltà ci ha portato ad appiattire la storia».
Che cosa, allora, andò storto, portando alla marginalizzazione dei cristiani in Medio Oriente?
«L’irrompere del modello nazionale tipico della cultura occidentale ha portato a pensare la propria identità sempre di più in termini di esclusivismo. E questo alla fine in Medio Oriente ha portato all’affermarsi dell’islamismo. Ma il fatto paradossale è che i primi a introdurre l’idea nazionale nel mondo ottomano furono proprio i cristiani. L’idea che i confini della nazione debbano corrispondere a quelli dell’etnia irrompe nei Balcani con i greci e gli slavi, innescando quel caso turco che porterà tragicamente alla distruzione dell’idea di pluralismo attraverso i massacri, come quello armeno, frutto del nuovo nazionalismo dei "Giovani turchi". Il problema fu la mancata elaborazione di una sintesi che sapesse reinterpretare in modo nuovo quella storia plurale. Che è poi proprio la grande questione che sta dietro alle rivoluzioni di oggi».
Vuole dire che il Medio Oriente oggi è tornato allo stesso bivio?
«Venendo meno i regimi su cui si fondava quel tipo di nazioni nate dalla fine dell’impero ottomano, torna alla luce l’estrema fragilità dell’operazione. Interi Paesi rischiano di dividersi proprio perché riemerge un mosaico che non è stato mai composto in una sintesi. È un discorso che non vale solo per i cristiani: pensiamo ai curdi in Turchia o alle minoranze sciite in Paesi sunniti. La sfida che sembra emergere è quella di costruire nazioni dall’identità forte ma accettando sul serio l’elemento plurale. E il fatto che in piazza Tahrir al Cairo ci fossero insieme musulmani e cristiani è un segno importante in questo senso. Vorrei dire, però, di più: questa sfida che vediamo oggi in Medio Oriente in qualche modo è la stessa che tocca le stesse nostre società: anche noi qui in Europa siamo sempre più chiamati a ripensare la nostra identità nazionale a partire da un nuovo contesto di società che sono plurali. Pensiamo al tema dei nuovi italiani, i figli degli immigrati».
Ma c’è davvero spazio per i cristiani in questa nuova stagione che si sta aprendo in Medio Oriente?
«Io credo proprio di sì. Nonostante tutte le difficoltà non è un caso che i cristiani in quelle piazze ci siano: non solo al Cairo, ad esempio anche a Daraa, in Siria. È l’occasione per rilanciare in queste società una proposta plurale seria, che metta al centro il tema della piena cittadinanza per tutti. Ed è un modello che ha una storia e una tradizione di riferimento. Credo che uno dei grossi problemi su questa strada sia la debolezza delle società civili, che è proprio il frutto della fine della stagione di cui parlo nel libro. Credo che la marginalizzazione e l’esodo dei cristiani siano stati uno dei fattori che hanno rallentato la crescita di società civili mature. Ed è una delle frontiere su cui l’Europa potrebbe aiutare».
Giorgio Bernardelli
Cristoforo
Uscire dall'Europa? Assurdo. Piuttosto chiederle di aiutarci a uscire dalla nostra invasiva mentalità mafiosa. Questo credo ci venga indirettamente domandato dall'Europa, che ci vede come un cancro.
prode anselmo
"L'Europa ha profondamente deluso" non aiutando l'Italia nell'attuale emergenza immigrazione e dimenticando il debito che il nostro continente ha con l'Africa "che ha tanto sfruttato e a cui ora sembra voltare le spalle". Lo afferma il segretario di Stato della Santa Sede, card. Tarcisio Bertone che in sintonia con il presidente Napolitano invita tuttavia a "non drammatizzare lo scontro con l'Europa". "L'appello del presidente Napolitano – spiega il cardinale – vuole cercare di mettere ordine, di ricompattare e di ricostruire la fiducia nell'Europa".
Per Bertone "non c'è dubbio – infatti – che l'Europa abbia profondamente deluso e i primi delusi sarebbero i padri fondatori dell'Europa perché l'Europa ha perso il suo spirito profondo, che è uno spirito di grande solidarietà prima di tutto tra i popoli dell'Europa e poi verso gli altri popoli. Quindi – conclude il segretario di Stato – accogliamo l'appello del presidente Napolitano e nello stesso tempo vorremmo alzare la voce perché questa Europa ritrovi la sua anima, un'anima di grande solidarietà e generosità soprattutto verso queste popolazioni che sono in emergenza e in grande necessità, e che non lasci sola l'Italia".