di Roberto Vitali
Non potendo aumentare la superficie vitata, perché la cantina ricade nella zona protetta del Parco dei Colli di Bergamo, “Cascina del Bosco” – azienda viticola di Petosino, Comune di Sorisole (Bg) – impegna uomini e risorse per migliorare sempre più la qualità dei vini prodotti. I progressi compiuti sono stati verificati da un gruppo di associati a Slow Food Valli Orobiche, che – guidati dal loro fiduciario, l’architetto Silvio Magni – hanno trascorso in azienda una serata di degustazione impreziosita dal cielo limpido di maggio, dal verde intenso dei boschi circostanti e dalla schietta ospitalità dei titolari, i fratelli Giancarla e Giuseppe Bonaldi.
- Vigneti ai piedi del Canto Alto, protetti da reti antigrandine
Fu nel 1967 che papà Lorenzo Bonaldi acquistò una vecchia cascina con stalla e tra i primi cominciò a credere che anche la Bergamasca avesse le potenzialità per produrre del buon vino. Strappò terreno al bosco e riuscì a mettere insieme quattro ettari di vigneto. Vi piantò soprattutto Pinot, Chardonnay, Merlot e Cabernet Sauvignon, vitigni che, sapientemente trattati e dosati, danno vita ai quattro vini di “Cascina del Bosco”: Valcalepio Bianco Doc, Valcalepio Rosso Doc, Valcalepio Rosso Riserva Doc, Brut Millesimato Metodo Classico.
La cura e la felice esposizione degli impianti, l’abbinamento delle tecniche tradizionali con le attrezzature più moderne danno vita a vini profumati e armoniosi. Nel corso degli anni i vigneti sono stati rinnovati secondo le tecniche agronomiche più moderne e secondo criteri che privilegiano la qualità rispetto alla quantità. Le antiche cantine sotto la casa rurale secentesca vengono oggi utilizzate per le delicate operazioni di affinamento dei rossi in legno e per la maturazione in catasta dello spumante metodo classico. Nei procedimenti di vinificazione, l’abbinamento delle tecniche tradizionali con le attrezzature più moderne si riflette nella superiore qualità dei vini. Determinante è anche il lavoro dei tecnici a cui l’azienda è affidata: l’enologo di lunga esperienza Fulvio Santini e il giovane (ma promettente e appassionato) agronomo Mauro Mazzoleni.
La produzione annua, circa 25.000 bottiglie, vede prevalere i rossi, con il Valcalepio Rosso Doc su tutti: l’annata 2008 ha meritato la “Gran Menzione” al recente Vinitaly. L’affinamento avviene in botti grandi, i tonneaux. Una piccola parte del Valcalepio Rosso continua l’affinamento in barrique e diventa “Riserva”.
«Molte soddisfazioni ci dà anche il nostro Valcalepio Bianco – afferma Giancarla Bonaldi – che nel bicchiere si caratterizza per mineralità e sapidità data dalla tipologia dei nostri terreni. Pinot e Chardonnay danno il meglio di sé in profumi e gusti, qualità che poi gli esperti ritrovano anche nelle nostre bollicine, il Brut Millesimato che resta minimo 24-36 mesi sui lieviti».
La degustazione organizzata da Slow Food ha visto servire in tavola una serie di prosciutti crudi (di Parma, San Daniele, Norcia, Montagnana, Casentino, Sauris, Cà del Botto di Ardesio) e tre formaggi bergamaschi: Agrì di Valtorta (che è presidio Slow Food), Branzi e Formai de Mut.
«Un solo difetto abbiamo trovato in questa azienda – ha concluso il fiduciario Silvio Magni – ed è il fatto che la produzione è poca e quindi le annate sono presto esaurite. Questo vino prezioso lo si trova in ristoranti selezionati e nelle migliori enoteche, oppure direttamente in cantina, previa prenotazione».
Cascina del Bosco, via Gasparotto 96, località Brughiera di Petosino, 24010 Sorisole (Bg), 035.571701, www.cascinadelbosco.it
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Aristide
MARKETING, SCIENZA PERDUTA E NEOLOGISMI
«Aumentare la superficie vitata»: cioè la superficie “evitata”? Leggendo di fretta, avevo pensato a un latinismo. In effetti, in italiano arcaico si dice “vitare” per “evitare”. Però capisco, dal contesto, che “superficie vitata” significa invece “superficie coltivata a vite”.
Lo so, qualcuno dirà: ma guarda che fra gli “esperti” si dice così. E io dico: ma chi ha dato agli “esperti” il permesso di esprimersi così? E poi: quali esperti? Gli esperti di viticoltura, cioè i viticultori, o gli esperti di marketing? Credo che i primi siano innocenti.
Non così ci si esprimeva quando l’Italia era una potenza industriale, nelle aziende comandavano gl’ingegneri (e non i managerini ipercinetici “motivati” da paragnosti aziendali), Dolce & Gabbana cucivano silenziosi, seduti al desco, e ancora non erano diventati ‘maîtres à penser’. Al tempo beato in cui a Bergamo un istituto scolastico come l’Esperia (già Regio Istituto tecnico, di osservanza tedesca), un centro di ricerca come l’Ismes (ne fu presidente Pier Luigi Nervi), e un’azienda come la Magrini onoravano la scienza. La quale è oggi, invece, disonorata da Bergamoscienza: una sorta di circo mediatico sotto il cui tendone si presentano a raffica, al colto pubblico e all’inclita guarnigione, famigerati “eventi”. Con il pretesto della scienza, ovviamente. Perché nessuno pensi che esagero, trascrivo da un comunicato stampa: «A Bergamoscienza le scienziate saranno intervistate da “inviate speciali”: con loro sul palco le Veline di Striscia la Notizia, Costanza e Federica; Alba Parietti; la showgirl Juliana Moreira; la comica di Zelig Teresa Mannino e la presentatrice televisiva Tessa Gelisio».
Ben altrimenti ci si esprimeva, quando eravamo un paese serio. Proviamo a fare un giro al Museo della Scienza e della tecnica di Milano, per esempio: leggiamo le diciture sui pannelli di comando di certe apparecchiature del buon tempo antico. Ebbene, non troverete una sola parola d’inglese, se non eccezionalmente, non una parola che non sia in italiano purissimo; i neologismi sono introdotti solo quando necessari, non certo per far fuffa, e sono di derivazione latina o tutt’al più greca, sapientemente coniati. Per esempio, gl’ingegneri giansenisti del “noster Politèknik” (definizione di Gadda) dicevano “frequenzimetro” e non “frequenziometro”, perché così si formano le parole in latino, e l’italiano conserva le buone regole del latino. Perché, vivaddio, l’italiano è una lingua bellissima, è la lingua di Galileo.
I markettari non hanno proprietà di linguaggio, anzi si compiacciono di usar violenza alla lingua di Dante, di Boccaccio, di Galileo. Tutto il contrario per quanto riguarda gli operai invece, che sono aderenti alle cose e assegnano a ciascuna cosa il nome che le compete. È il solito principio: ogni utensìle va collocato al suo posto, altrimenti è il caos. Vedi le considerazioni di questo tenore svolte in proposito da Primo Levi. C’era rispetto, per la proprietà di linguaggio, al tempo in cui esistevano i direttori (i quali erano davvero responsabili: “mica j'ho detto cótica”) e i manager non si sapeva neanche che cosa volesse dire (meglio così, perché esser manager è una cosa disdicevole: “to manage” deriva dall’ital. “maneggiare”).
Insomma – credo di averlo già detto in questa bacheca elettronica – fece benissimo Nanni Moretti ad assestare un ceffone a quella tal signora il cui eloquio era un profluvio di espressioni che facevano violenza continuata e dolosa alla lingua italiana. Questo avviene nel film “Palombella rossa”. Vedi:
http://www.youtube.com/watch?v=qtP3FWRo6Ow&fe…
Ogni neologismo, se è gratuito e nasconde una finalità markettara, è per me – penso anche per tutti gl’italiani “residuali” come me – come una stilettata a tradimento. Conservo nitido il ricordo della sofferenza causata da ciascuna di queste ferite: quando, per esempio, in un negozio di abbigliamento una commessa volle rifilarmi un pessimo capo d’abito decantandomene la “vestibilità”, ed era la prima volta che sentivo quest’obbrobrio; oppure quando, nel corso di un lavoro editoriale, mi capitò sotto gli occhi, per la prima volta, l’espressione “differenze di genere” e mi ci volle una certa spremitura di meningi per capire che quella era una “differenza di sesso”, perché quello era un libro di filosofia, e io pensavo alla classificazione dei concetti per generi e per specie, secondo Aristotele. Ecc. ecc.
Signori del marketing: pietà!
Filippa detta Pippa
Aristide, è bellissimo quel che hai scritto. Andrebbe riportato sui libri di scuola, lo dico per vero, magari traducendolo in inglese, in linguaggio elementare (da asilo) però per i membri e le ……. della casa reale del mio paese, cui poco o tanto ora appartengo. Direi tanto, anche solo perchè tenuta in loco dalle lunghe e polipesche braccia e mani del principino Henry Gambaemanolonghe, molto longhe.
Aristide
ANCORA SUL LINGUAGGIO DEL MARKETING
Se l’argomento non vi è venuto a noia, con riferimento a quanto scritto precedentemente, riporto alcune nuove considerazioni (non necessariamente originali) sul linguaggio settoriale del marketing. Mi son venute in mente mentre passeggiavo lungo le rive del’Adda (che è più copioso dell’Ilisso, ma preferirei l’Ilisso, un fiumiciattolo che scorre in prossimità di Atene). Pensavo che la comunicazione del marketing e pubblicitaria, delle pubbliche relazioni ecc. da un lato impoverisce la lingua italiana, come pure tutte le lingue del mondo, dall’altro ha la pretesa di forzare in senso mistico i significati esistenti, d’introdurre nuove locuzioni (sempre a fine mistico), quando addirittura non pretenda di forgiare parole di conio nuovissimo, in funzione della contingente esigenza markettara. Ecco alcuni esempi:
A – Riguardo alla forzatura in senso mistico, ottimi esempi ci vengono dalla pubblicità dei prodotti tecnologici. Per non dilungarmi troppo, copio e incollo dal catalogo di un’autovettura di lusso: «Una vettura carismatica, caratterizzata da linee fluide e dinamiche. Le ampie superfici e la marcata linea di spalla rendono il profilo laterale mascolino e sportivo. […] La linea dinamica […] conferisce all’auto una «spinta ottica» in avanti. I grandi cerchi in alluminio accentuano ulteriormente l’immagine sovrana dell’ammiraglia S…». Avete capito? Vettura “carismatica”, profilo “mascolino”, “spinta ottica”, “immagine sovrana”. Io, come potenziale acquirente, mi sento offeso, non sono un buzzurro, non mi faccio impressionare.
B – Riguardo all’introduzione di nuove locuzioni, è sotto gli occhi di tutti l’uso straripante di parole inglesi, per designare oggetti, servizi ecc. che potrebbero essere indicati meravigliosamente bene ricorrendo a parole italiane. Il fatto è che, sempre in un’ottica buzzurra, la parola inglese nobilita il prodotto in vendita. Oddio, questo avviene anche in altri campi. Ricordo un episodio di tanti anni fa. Ero appassionato di elettronica ed ero frequentatore abituale del negozio della Gbc, in via Petrella, Milano. Lì c’erano due commesse che sorpresi più di una volta farsi gli occhi dolci. Un giorno sentii una di loro che diceva: «Mamma mia, se la gente sapesse della nostra ‘situation’…». Capito? “Situation” è molto più nobile che “situazione”, o – per meglio dire – “condizione di coinvolgimento sentimentale” (fra donne, in questo caso).
C – Riguardo alle parole di nuovo conio, l’ultimo esempio (abbastanza disgustoso) ci è dato dalla nuova pubblicità di una certa marca di carta igienica, della quale si esalta una qualità finora sconosciuta, la “morbistenza”. Ecco come recita la pubblicità: «Quando si parla di carta igienica [infatti, noi ne parliamo sempre, con gli amici, al bar e sul posto di lavoro: N.d.R.], la morbidezza è importante quanto la resistenza. Ecco perché la nostra carta igienica è il risultato della perfetta combinazione di morbidezza e resistenza. Noi la chiamiamo “morbistenza”.»
O tempora, o mores!