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    nano

    Uno dei concorrenti dell’approccio politico-partitico che può essere assunto dagli esseri umani è costituito dalla mentalità tecnico-scientifica. Essa comporta l’idea che tutto, prima o poi, può essere spiegato e, perciò stesso, controllato. Sappiamo bene, però, che tale possibilità di controllo non è totalmente in possesso del singolo individuo. Anche quando facciamo uso, più o meno abilmente, di ciò che ci permette di orientare e di governare meglio i processi della nostra vita non tarda a manifestarsi, prima o poi, un senso di frustrazione e d’impotenza. Ciò accade perché noi possiamo utilizzare gli strumenti tecnologici solo adattandoci alle regole che di essi sono proprie. Più in generale, anzi, il mondo della tecnica possiede una pretesa di autonomia e una capacità di autoalimentarsi che ci fanno persuasi di essere subordinati a esso. Ecco perché, esplicitando questo sentimento di subordinazione e organizzandolo in forme di culto politico, possono nascere partiti tecnologici.

    Con l’espressione “partiti tecnologici” intendo non tanto quei partiti che fanno riferimento a determinati strumenti tecnici per la loro elaborazione o per lo svolgimento dei propri riti. Questo, in realtà, è sempre avvenuto. Oggi tuttavia la mentalità tecnologica induce a ritenere, più di quanto accadeva in passato, che un programma di partito, un culto o rito dello stesso possa essere scomposto nei propri elementi costitutivi e ricomposto a proprio piacimento, e modellato sulla base delle esigenze di ciascuno. Nascono allora i cosiddetti “partiti fai da te”, come sostanzialmente avviene nei buonismi derivati dal New Age, in cui il “fai da te” consiste nell’interpretazione soggettiva data all’indirizzo partitico.

    Oltre a questa forma d’interazione, però, si verifica oggi un’ulteriore modalità in cui la dimensione tecnologica incide sull’esperienza politica. Si tratta del fatto che molte strutture partitiche tradizionali si rivolgono massicciamente alle nuove tecnologie comunicative per diffondere il proprio messaggio e per consolidare il proprio spazio di potere. Questo, certo, è sempre avvenuto: soprattutto per quanto riguarda i partiti “dell’annuncio”, che si basavano sull’esercizio della capacità comunicativa per fare proselitismo e per promuovere la propria “missione” (vedi il Partito Comunista Italiano nel dopoguerra o la Lega Nord). Ciò che tuttavia cambia, oggi, è la misura di questo riferimento, e il modo in cui esso incide sul contenuto del messaggio partitico-politico e sul configurarsi del partito stesso. Emerge allora il rischio che questo contenuto e questa struttura siano modellati in base alle esigenze della società dello spettacolo, piuttosto che movendo dalla fedeltà al rapporto con una sfera politica o intesa come tale.

    Tutto ciò d’altronde non basta per trasformare i partiti che fanno riferimento ai nuovi strumenti di comunicazione, e che addirittura accettano il rischio di compromettersi con essi, in partiti tecnologici propriamente detti. Essi lo diventano, invece, se ritengono di potersi sviluppare solamente attraverso l’uso delle nuove tecnologie. Di più: lo diventano nella misura in cui essi considerano le nuove tecnologie come qualcosa di sovra-umano, che, andando oltre le potenzialità del singolo, lo può “assimilare” con la propria superiorità. Una specie di “ultradarwinismo” organizzativo. Proprio per questo essi possono venir onorati anche su di un piano para-religioso.

    Un esempio fra i tanti che potremmo menzionare è quello che riguarda il cyber-partito di Grillo. Non si tratta di un partito che faccia uso del web affiancando quanto offerto dalla rete ad altre forme di diffusione del messaggio. No, si tratta di riti e culti partitici che solo attraverso il web hanno ragion d’essere e possibilità di sviluppo. Essi non sono, cioè, partiti in internet, ma partiti di internet. Con quest’ultima espressione indico appunto le organizzazioni partitiche che hanno il loro ambiente, il loro spazio rituale, i loro oggetti di culto esclusivamente nella rete.

    Segnalo alcuni motivi di trasformazione dell’esperienza politica di cui questi fenomeni sono testimonianza. Anzitutto, l’interazione attraverso il web rischia di cambiare lo stesso significato del termine “politica”. Se, infatti, questo termine allude a una specifica forma di legame tra gli esseri umani, correlato alle istituzioni poste al loro comune servizio, qui è proprio un tale legame a essere radicalmente modificato. Ora esso viene a unire i netsurfers con la dimensione stessa del web. È il web che prende il posto delle istituzioni e delle modalità del loro utilizzo. L’istituzione, in altre parole, viene a coincidere con il nesso tecnologico: con la struttura, con la matrice. Ecco ciò che la web-community è chiamata politicamente ad “adorare”. Ed ecco perché la domanda circa i programmi di tale tipo di partito è priva di senso: il programma non può esistere se non generato dal web, perché altrimenti si sovrapporrebbe al web medesimo, limitandone “l’infinita” potenzialità, della quale ognuno dei netizen – i cittadini del web – si sente pienamente investito Però, riflettiamoci, internet ha le sue regole che sono poste pur da qualcuno, il quale le sa utilizzare e modificare all’occorrenza. E le regole stesse non sono parimenti alla portata di tutti gli internauti partecipi del giuoco politico in questione. O no? Mi sembra che si tratti di un grande problema.

    In secondo luogo, poi, le nuove tecnologie non vengono qui considerate come un mero strumento, come qualcosa che si può semplicemente utilizzare, ma incidono nella forma stessa dell’essere politico e dell’esperienza che lo rende possibile. Più precisamente, ci accorgiamo che, trasposta in rete, l’azione politica e la politica stessa si modificano e vengono ad assumere, con i loro contenuti, un carattere virtuale. La virtualizzazione della politica è infatti il vero e proprio rischio del suo inserimento nel web. Ciò comporta la necessità di gestire la relazione fra questa dimensione virtuale e il mondo quotidiano in cui uomini e donne si trovano a vivere. Ed emerge il problema di come pensare la prospettiva di salvezza sociale che anche i partiti tecnologici, dal canto loro, intendono offrire.

    In ultimo, come già accennavo, ciò che viene a essere modificato è la possibilità stessa di un’esperienza politica. Internet certamente, così come più in generale le nuove tecnologie, offre un ambiente che amplia la nostra possibilità di far esperienza. Non si tratta solo di un’estensione delle nostre capacità comunicative, ma appunto di un allargamento dei confini dell’esperienza stessa. Ma vi è una grande differenza tra l’esperienza politica che l’uomo può vivere nel quotidiano e l’esperienza virtuale che può essere fatta, ad esempio, nel web. Quest’ultima forma di esperienza, infatti, ha importanza per me solo in quanto mi coinvolge in una serie di relazioni parallele e mi spinge a restare connesso.

    Ecco allora emergere una serie ben precisa di questioni. Domandiamoci: che cosa vuol dire “esperienza politica” nel web (quell’esperienza, cioè, che consente al netizen – il cittadino di internet – un’estensione dei modi del proprio essere politico)? E in che termini essa può venir regolamentata? In altre parole: questa forma di esperienza – intesa in un’accezione forte, tale cioè da dar senso alla vita reale degli esseri umani, tale da poter offrire una prospettiva di salvezza sociale e da trasformare i comportamenti quotidiani – è davvero possibile nel web? O invece, collocata soltanto in internet, la politica diventa solo un gioco: serio come tutti i giochi, per carità, ma niente affatto impegnativo, coinvolgente l’intera persona? A queste domande bisognerà dare risposta: specialmente se in futuro tali forme di attività politica prenderanno spazio ulteriore.”

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