La community di Papillon, il movimento di consumatori fondato dal giornalista Paolo Massobrio, ha lanciato un sondaggio sulle feste di fine anno dove emergono sorprese. La prima è che i dati non si discostano sostanzialmente da quelli dell’anno precedente, anche se aumenta la propensione a celebrare Capodanno in casa.
L’85% sceglie infatti di passare l’ultimo dell’anno in casa propria con la famiglia oppure da amici, mentre solo il 12% opterà per ristoranti e locali, per lo più in località di villeggiatura. Tra i piatti must vince a dismisura il cotechino con lenticchie indicato come piatto simbolo del Capodanno dal 75% del campione, seguito dal pesce (10%) in particolare crostacei. Dai pensieri scompaiono i dolci tipici delle feste come il panettone e il pandoro indicati solo dal 7%, mentre resistono alcune arcaiche tradizioni come l’uva bianca e il melograno che per il 10% rappresentano ancora un simbolo di fortuna e ricchezza per l’anno a venire. Aumentano gli italiani che passeranno un Capodanno di solidarietà, nei cenoni benefici organizzati da associazioni come Avsi e Banca del Tempo. C’è poi chi non rinuncia alla pizza e chi predilige primi tradizionali (per il 9% non possono mancare cappelletti e ravioli in brodo), ma spuntano anche inusuali abbinamenti come gamberi e lenticchie. Tra i vini si affermano il Franciacorta, poi Prosecco e Cartizze (indicati con la corretta denominazione dal 30% degli intervistati), che nell’immaginario collettivo affiancano lo Champagne che berrà o aspira a bere il 20% del campione. Gli astemi militanti brinderanno invece con succo di mela e bibite, ma c’è chi consiglia ai propri ospiti di portarsi lo spumante preferito da casa. Il 5% non rinuncia ai rossi importanti, tra cui vincono Brunello, Barbera e Sagrantino di Montefalco.
E tra i consigli di Papillon, nome anche di un periodico “di sopravvivenza gastronomica” che è appena uscito col suo 62° numero, ecco i dettagli sul brindisi: “Che sia col vino migliore che abbiamo in cantina – dice Massobrio – che non necessariamente deve fare il botto. E poi si riscopra il canto, perché è il segno di un ringraziamento antico verso la vita, ma anche di una coralità da ritrovare per il nuovo anno, di uno stare insieme, comunque e sempre”. “Per questo a tavola si metta la tovaglia che unisce, mentre la tovaglietta singola – dice lo psichiatra Alessandro Meluzzi – rimarca l’individualismo”.
“Non è tempo di ostentare abbondanza di cibarie – continua Massobrio – ma di scelte, che siano sempre nella direzione della qualità e della misura. Questa è la vera indicazione che emerge per il 2012, dove l’attenzione verso i prodotti migliori di casa nostra segna comunque un punto di non ritorno. Dalla qualità, l’Italia può davvero ripartire”.
2 Comments
daniele
Natale sobrio: stiamo ripensando i nostri stili di vita?
Noi padroni del tempo o forse il tempo nostro padrone
A leggere le impressioni scambiate tramite i social network e le tradizionali telefonate di auguri, sembra proprio che le festività natalizie siano trascorse in maniera meno consumistica e più riflessiva del solito. Pochi regali per lo più simbolici tra adulti, giochi e libri non costosi per i più piccoli, famiglie riunite intorno al tradizionale pranzo di Natale, con i bambini intenti a giocare per una volta con la tv spenta. Sembra proprio che si sia incominciato a ragionare anche in termini di Fil (Felicità interna lorda) oltre che di Pil.
Ci voleva dunque una dura presa di coscienza del drammatico momento che sta attraversando il Paese, per indurci a ripensare il nostro modo di vivere?
Evidentemente sì. Non possiamo quindi farci sfuggire l’occasione, impiegando un po’ di tempo delle festività per riflettere più a fondo, facendo magari qualche esame di coscienza, cercando di mobilitarci per individuare qualche opportunità dietro i problemi.
Mentre ci rendiamo conto che quasi in ogni famiglia c’è almeno un giovane che non trova lavoro o un cinquantenne che lo ha perso, prendiamo atto di un primo dato positivo: il senso di solidarietà cresce man mano che gli effetti della crisi si fanno sentire. Scalda il cuore leggere che quest’anno il Banco alimentare ha raccolto addirittura il 2,6% in più di alimenti da donare a chi non ha di che nutrirsi. Come scaldava il cuore vedere i bambini venirti incontro al supermercato invitandoti a riempire i sacchetti della raccolta: simbolo di un gesto di carità che diventa prassi di vita, e non il frutto dell’emotività di un momento.
Altrettanto rinfrancante leggere i commenti degli allievi di quella scuola toscana dove su iniziativa dell’insegnante di lettere hanno provato a ridurre drasticamente per una settimana l’attenzione dedicata a internet, pc, cellulare e playstation. «È servito a regalarti del tempo, a capire che comunicare tramite Facebook è giusto, ma non è tutto, e che rischi di perdere troppo tempo a dire anche tante cose inutili. E che la tv o la ‘play’ accese per noia non ti aiutano a crescere»: è uno degli studenti coinvolti nell’esperimento a darci con il suo commento un esempio di Fil. Che non vuol dire affatto tornare al ‘buon selvaggio’ di Rousseau, né rifiutare i prodotti e i servizi che il progresso ci mette a disposizione, ma usarli – per l’appunto – per progredire e non per regredire.
Grazie a una piccola pausa ci accorgiamo di aver accettato senza pensarci troppi compromessi. L’illusione più grande, certamente un’illusione di tipo paranoide, ci ha fatto credere che grazie alle conquiste dell’informatica e della tecnologia potessimo diventare addirittura padroni del tempo. Non solo i ragazzi della scuola di Righi hanno scoperto che un motore di ricerca può abbreviare di molto un approfondimento, ma che altrettanto facilmente rischia di condurti su un’autostrada con milioni di svincoli possibili. Diversi anni fa, con grande preveggenza, il filosofo Giacomo Marramao illustrò in un convegno quella «patologìa dell’aspettativa» di cui oggi quasi tutti soffrono, in particolare i ragazzi. La cosa che più colpisce, quando li coinvolgi in qualche laboratorio all’università o ci parli durante gli esami, è la loro crescente incapacità di concentrarsi, figlia di un costante impiego di tanti mezzi in contemporanea (pc, cellulare, telecomando tv, playstation…). Hanno disimparato ad aspettare, impiegando le pause per pensare: questo continuo surf virtuale li spinge a passare nella vita da un momento all’altro senza che nessuno di questi momenti abbia il tempo di diventare ‘esperienza’. I sempre più affascinanti gadget elettronici in questo non aiutano, anzi.
Già quindici anni fa, un preveggente editorialista di Wired ci aveva messo in guardia: «Dedichiamo sempre meno tempo a singoli pezzi di media, e così mentre collezioniamo frammenti, la nostra attenzione svanisce…». Per fortuna ci sono genitori accorti che hanno deciso di impedire la visione di cartoni animati troppo veloci (oltre che violenti) ai bambini piccoli, preferendo le vecchie storie e i vecchi disegni di Disney. Per fortuna c’è un insegnante di lettere capace di far capire ai suoi allievi che dentro alla loro testa, alla loro mente, alla loro anima, c’è molta più potenza vitale che nel più grande dei computer. Se la botta della crisi può servire a sostare un momento a riflettere, dobbiamo approfittarne. Per ripensare anche il rapporto che noi e i nostri figli abbiamo con il tempo, e magari di lì cominciare a cercare un sentiero in grado di farci diventare più esseri umani «fatti per seguir virtute e canoscenza» che topolini affannati a correre sempre più in fretta su una ruota che non porta in nessun luogo.
Alberto Contri – *Presidente della Fondazione Pubblicità Progresso
Da “Avvenire” del 30 dicembre 2011
Kamella Scemì
ESSERE PRONTI
“Saper essere pronti è una grande cosa! È una facoltà preziosa che implica fermezza, analisi, colpo d’occhio, decisione. Saper essere pronti è anche saper partire. Saper essere pronti è anche saper finire. Saper essere pronti è, in fondo, anche saper morire.”
«Saper essere pronti è anche saper finire». Mi aiutano i Frammenti di un diario intimo dello scrittore svizzero Henri-Frédéric Amiel (1821-1881) a trovare le parole per salutare tutti i lettori di questo giornale d’opinione durante questo 2011 che sta ora spegnendosi. È sempre un po’ difficile, pur dopo traversie varie, scambiarsi un abbraccio frettoloso prima di salire sulla scaletta di un aereo che ci separa da coloro coi quali si sono condivisi pensieri e affetti e ci avvcina nuovamente a persone lontane ma mai dimenticate. Eppure, l’«essere pronti» era anche l’appello che Cristo aveva lasciato ai suoi. Tuttavia, egli partiva, ma con una promessa: «Verrò di nuovo», anzi, «tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, verrà il Figlio dell’uomo» (Giovanni 14,3; Matteo 24,44). La stessa morte, partenza estrema, non è mai un addio senza futuro, come molti pensano, soprattutto i più sconfortati, come scriveva in modo amaro Leonardo Sciascia: «Non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza». Per il cristiano partire, finire, morire non sono sospirati o deprecati approdi nel gorgo del nulla, ma un distacco per un nuovo e diverso inizio. Per questo, è necessario prepararsi, «essere pronti» come per una nuova giornata impegnativa e importante. È con tale spirito che salutiamo l’anno vissuto ed entriamo nel nuovo; sarà così che dovremo vivere anche l’ultimo istante della nostra esistenza. È così che ora ci scambiamo non un «addio», ma un «arrivederci», anche se non sappiamo né il giorno né l’ora né dove. Salvo che là dove vado si possa utilizzare un computer…