INTERVISTA AD ORIANA FALLACI 4/7
Anche noi italiani siamo stati dei migranti. Ma la Fallaci spiega perché il paragone con l’immigrazione di oggi non regge
SEGUITO ARTICOLO “Xenofobo, reazionario, razzista!” pubblicato il 14.12.2020
Lei è da sempre molto critica nei confronti dell’attuale fenomeno d’immigrazione clandestina. Ma io potrei obiettarle che anche noi italiani fino ad un secolo fa eravamo dei migranti. Non è un atto di incoerenza quello di criticare oggi quello che siamo stati noi ieri?
No, il paragone non regge. E non regge per una serie di motivi che chiunque conosce benissimo ma che per convenienza si finge di ignorare o di dimenticare.
E quali sono questi motivi?
Motivo Numero Uno. L’America è un continente di 9.363.353 chilometri quadrati. Ha regioni che ancor oggi sono completamente disabitate o così scarsamente abitate che in molti casi ci si può vivere per mesi e mesi senza scorgere un essere umano. E specialmente nella seconda metà del milleottocento ossia quando la grossa ondata migratoria ebbe inizio, buona parte di quelle regioni erano del tutto deserte. Niente città, niente villaggi. Niente strade, niente case. Al massimo, qualche fortino o un corral cioè un recinto per cambiare i cavalli. La stragrande maggioranza della popolazione si concentrava infatti negli Stati dell’Est cioè nelle regioni della Costa Atlantica. Nel Midwest, ossia nella zona centrale, non trovavi che cacciatori o avventurieri e le tribù dei Nativi. Nel Far West, ossia dalla parte dell’Oceano Pacifico, ancor meno: la corsa all’oro era appena incominciata.
E l’Italia?
L’Italia, eccoci al punto, non è un continente. È un paese piuttosto piccolo, trentadue volte più piccolo degli Stati Uniti, per niente caratterizzato da regioni deserte e in più sovrappopolato. Cinquantanove milioni e seicento diciannovemila cittadini censiti nel 2011, (cifra che esclude gli immigrati e in particolare quelli clandestini), contro trecentotrenta milioni di americani. Ergo, se centomila o anche cinquantamila o anche ventimila figli di Allah si stabiliscono ogni anno in Italia, per noi è come se milioni di messicani si stabilissero ogni anno nel solo Texas o nella sola California.
Motivo Numero Due. Per un secolo, vale a dire dalla Guerra d’Indipendenza fino al 1875, l’America fu una frontiera aperta. Le sue coste non erano sorvegliate, i suoi confini nemmeno, e gli stranieri potevano entrare a loro piacimento. Anzi erano desiderati. Per crescere e per gioire la giovane nazione doveva sfruttare il suo immenso spazio, la sua potenziale ricchezza, e proprio a causa di questo nel 1862 Abramo Lincoln firmò lo Homestead Act.
Di che cosa si tratta?
Lo Homestead Act è stato un Decreto col quale il governo federale regalava 270 milioni di acri ossia 108 milioni di ettari a chiunque (uomo o donna, cittadino o straniero) avesse non meno di ventun anni e accettasse queste due condizioni. Primo: stabilirsi nel fondo scelto e nel giro di cinque anni disboscarlo, dissodarlo, trasformarlo in una fattoria o in un allevamento di bestiame. Secondo: costruirvi una casa, crearvi una famiglia e, se straniero, prendere la cittadinanza americana.
Ma queste terre erano tutte veramente disabitate?
No! E molte tribù di Pellerossa furono costrette ad andarsene o a lasciarsi chiudere nelle riserve. I Cherokee, ad esempio, i Creek, i Seminole, i Chickasaw, gli Cheyenne… Bè, in Italia non c’è mai stato un Homestead Act che invitasse gli stranieri a stabilirsi nelle nostre terre. “Venite, figli di Allah, venite. Se venite, vi regaliamo un bel poderino in Chianti o in Valpadana o in Riviera. E per regalarvelo sloggiamo i toscani, i lombardi, i liguri. Li prendiamo a pedate nel culo, li chiudiamo nelle Riserve”. Come nel resto dell’Europa, in Italia ci sono venuti senza alcun invito o sollecitazione. Sono piombati sulle nostre spiagge con le dannate barche delle loro mafie a dispetto delle Guardie Costiere, che non riuscivano a respingerli. Perché noi siamo un’Open Frontier, una frontiera aperta. Non abbiamo fondi incoltivati da regalare, regioni disabitate da popolare. Eppure ci trattate come Cherokee o Creek o Chickisaw o Seminole o Cheyenne da chiudere in campi di concentramento, riserve per far posto ai figli di Allah.
Ma poi, anche in America, la musica cambiò…
E qui arriviamo al Motivo Numero Tre. Perché allarmato dalle proporzioni che stava assumendo il fenomeno, nel 1875 il governo federale capì infatti che bisognava porre un limite all’invasione. La politica migratoria si fece insomma più restrittiva, e chi entrava clandestinamente veniva subito espulso. Da noi, invece, tutti entrano a loro piacimento. Ladri, rapinatori, terroristi di Al Qaida. Prostitute, lenoni, delinquenti ultra-condannati, commercianti di droga, mendicanti, ammalati di Aids. Lungi dal venir respinti, una volta sbarcati vengono accolti con prodigalità. Alloggiati, nutriti, curati a spese dei Cherokee e dei Creek e dei Chickiasaw e degli Cheyenne cioè dei Nativi che pagano le tasse. E quando si sono stabiliti nelle nostre città, nei nostri villaggi, magari un sussidio. Anche se hanno l’automobile e il telefonino e il computer, si beccano il sussidio. Anche se d’estate vanno in vacanza viaggiando su aerei costosi.
Ma, Oriana, qui si sta parlando di clandestini!
Tanta generosità non include i clandestini, d’accordo. Ma i clandestini hanno altri vantaggi. Essendo tali possono infrangere la legge più facilmente e, se per caso vengono espulsi, tornano. Se vengono espulsi di nuovo, tornano di nuovo. Per commetter nuovi crimini, ovvio. Mentre le autorità non fanno nulla per cacciarli. Cristo, io non scorderò mai i comizi e le manifestazioni che a volte organizzano, in cui i clandestini riempiono le nostre piazze per esigere i permessi di soggiorno. Oltre a sentirmi offesa da questa prepotenza in casa mia mi sento beffata dalle autorità che dicono: “Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono”. Razza di farabutti, imbroglioni! Non-lo-sapevate?!?
Ci sono altri motivi per distinguere la nostra emigrazione in America con questa di oggi?
Ce ne sono molti altri, ma l’ultimo che mi sento di menzionare è così semplice che lo capirebbe perfino un bambino. L’America è un paese molto giovane. Si pensi che come nazione nacque alla fine del 1700, ne deduci che ha poco più duecento anni. È anche un paese composto quasi esclusivamente di emigrati. Dal Mayflower in poi, cioè dalle Tredici Colonie in poi, chiunque in America è un emigrato. O il figlio, il nipote, il bisnipote, il discendente d’un emigrato. I Nativi cioè i Pellerossa ai quali rubammo la terra, la patria, in America sono ormai una trascurabile minoranza che non conta nulla. Essendo un paese composto quasi esclusivamente di emigrati è anche il più incredibile miscuglio di razze, religioni, lingue che sia mai esistito sul nostro pianeta. Un miscuglio amalgamato dal fatto che qualunque sia il cognome, la religione, il colore della pelle, tutti vi si sentano americani. Di conseguenza la sua identità culturale non è ben definita, e a parer mio è anche molto confusa.
Il paragone con l’Italia, quindi, non può reggere.
Non può reggere perché l’Italia, invece, è un paese vecchio anzi antico. La sua storia dura, in sostanza, da tremila anni.
Ma anche qui, in questi tremila anni, ci sono state delle invasioni.
Verissimo. E nonostante gli invasori che per secoli l’hanno occupata, smembrata, straziata, non è mai stata un paese di emigrati quindi un miscuglio di razze e di religioni e di lingue.
Però alcune influenze da chi è passato dall’Italia le abbiamo avute.
Bè, a forza di viverci assieme l’Italia ha assunto molte delle loro caratteristiche sociali, sì. Ad esempio i vari modi di mangiare, peccare, lavorare, comportarsi. A forza di andarci a letto per amore o stupro o matrimonio, ha assunto molte delle loro caratteristiche somatiche, sì. Ad esempio i capelli biondi e gli occhi azzurri dei normanni o degli austriaci, i capelli neri e gli occhi scuri dagli spagnoli. Però culturalmente non si è mai lasciata inghiottire da loro. Al contrario, li ha sempre assorbiti come una spugna che succhia il liquido nel quale è immersa.
Però, in passato, l’Italia è già stata attraversata dagli islamici.
D’accordo, del dominio arabo nel meridione rimangono ancora oggi tracce amare. Pensi al machismo che lì trionfa come in Islam. Pensa ai lenzuoli insanguinati che, per dimostrare che la sposa era davvero vergine, in alcuni borghi vengono ancora appesi alle finestre della camera dove s’è consumata la prima notte di matrimonio. Però dal meridione in su non troverai mai una sia pur debole impronta dell’Islam. Di conseguenza la nostra identità culturale è molto precisa e bando alle chiacchiere: da duemila anni non prescinde da una religione che si chiama cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica.
Eppure, lei è atea.
Sì, sono atea graziaddio! E ce ne sono molti altri di atei in Italia, ma la gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c’entro. C’entro, ahimè, c’entro. Che mi piaccia o no, c’entro.
In che senso? Se non crede in Dio…
Ma come farei a non centrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica delle campane. Le campane di Santa Maria del Fiore. È in quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos’è l’architettura, cos’è la scultura, cos’è la pittura, cos’è l’arte, cos’è la conoscenza, cos’è la bellezza. È attraverso quella chiesa (presto rifiutata ma inevitabilmente rimasta dentro di me cioè dentro la mia cultura) che ho incominciato a chiedermi cos’è il Bene, cos’è il Male, se il Padreterno esiste o non esiste, perdio… Vedi? Ho detto ancora una volta “perdio”. Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, sono così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d’esprimermi.
Per concludere il discorso, cosa si sente di affermare?
Affermo che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri principii, i nostri valori. Affermo che da noi non c’è posto per i muezzin, per minareti, pei falsi astemi, per il fottuto chador o l’ancor più fottuto burkah. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che abbiamo bene o male conquistato, la democrazia che abbiamo bene o male instaurato, il benessere che abbiamo indubbiamente raggiunto. Equivarrebbe a regalargli la nostra Patria, insomma. L’Italia. E l’Italia io non gliela regalo.
Continuazione fra sette giorni (28.12.2020) con: “Francia o Spagna purché se magna”.
Oriana Fallaci
A cura di Alessandro Frosio
Tratto dal libro La Rabbia e l’Orgoglio di Oriana Fallaci. BUR Rizzoli libri – settembre 2001
ORIANA FALLACI (1929 / 2006) – Fiorentina, è stata definita “uno degli autori più letti ed amati del mondo” dal redattore del Columbia College of Chicago che le ha conferito la laurea ad honorem in letteratura. Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera al tempo degli attentati dell’11 settembre 2001 e attuale redattore de L’Economia del Corriere, ha scritto: “Lei, combattente irriducibile dal suo eremo americano, amava andare controcorrente. Ma da sola”. Ha intervistato i grandi della Terra e come corrispondente di guerra ha seguito i conflitti più importanti del nostro tempo, dal Vietnam al Medio Oriente. I suoi libri, tradotti in tutto il mondo, sono il risultato di una mente geniale che ha fatto la storia del giornalismo internazionale.