Le statistiche, si sa, non dicono molto ad una prima veloce lettura pero’, se ci si sofferma a riflettere meglio, sul contenuto implicito dei dati, forse qualche domanda e, soprattutto, qualche risposta potrebbe anche emergere.
E’ il caso del dato sulla presenza di case editrici nelle provincie lombarde reso noto dalla Camera di Commercio di Milano. (a cura di Federico Rossi)
Lo scenario che emerge dal rapporto vede una fortissima concentrazione a Milano (668 editori su 921 dell’intera regione) in funzione dello storico posizionamento a polo culturale e formativo nella Lombardia. Sebbene molto distaccate seguono, comunque, tre provincie emergenti anche nell’erogazione di alta formazione: Pavia (43), Brescia (43) e Bergamo (39).
Ultime, con una presenza trascurabile, Sondrio (1) e Lodi (6), dovrebbero aiutarci a completare il quadro di come l’editoria si “spalmi” nel tessuto socio-economico regionale.
Ritengo, a senso e prendendo anche in considerazione il noto luogo comune del che “in Italia si legga poco”, che la concentrazione del business editoriale segua molto il consumo di cultura libraria originata (si spera non “imposta”) dalle università, scuole o centri culturali. Questa considerazione giustifica il fatto che ove questo canale sia non adeguatamente presente, il bisogno di lettura non emerga spontaneamente soltanto sulla scorta da una tradizionale e consolidata voglia di sapere e di conoscere.
Ne va quindi di un carattere distintivo di una popolazione: leggere per necessità non equivale a leggere per piacere!
Se diamo, poi, per valida questa corrispondenza del leggere per necessità, potrebbe venire utile chiederci anche quanto di questo consumo editoriale venga, poi, effettivamente letto ed assimilato.
Tante domande che aspettano sicuramente una risposta più “profonda” di questa mia personalissima ma superficiale riflessione. Anzi, ci sarebbe da augurarsi, e questo per il bene del futuro della nostra profonda e storica cultura tradizionale, che chi riesca a darsi delle risposte più “centrate” possa anche avere qualche bagliore di chiarezza sulla eventuale soluzione di come far crescere l’esigenza del “leggere per passione”.
Il parere di Claudio Piga
L’articolo ci dà qualche spunto di riflessione che butto giù schematicamente, per punti, come del resto si conviene a una bacheca elettronica. Se a qualcuno può apparire “tranchant” rispondo evangelicamente: “Oportet [ut] scandala eveniant”.
# 1 – Non è detto che la lettura dei libri sia indice di livello culturale elevato (del lettore stesso, dell’area geografica di appartenenza ecc.). Ovvio, bisognerebbe vedere di quali libri si tratta. Non si può mettere, che so io, “La coscienza di Zeno” sullo stesso piano di un libro di ricette per il forno a microonde. Lasciamo questi indici ai pubblicitari e agli ometti di marketing, quando snocciolano le loro cifre in rappresentanza di qualche associazione di categoria. I quali ometti, però, hanno questo di buono: quando loro parlano, tu sai che sono professionalmente tenuti a mentire. A loro modo, sono onesti. Senza contare che nell’Atene del V secolo a.C. si leggeva, in confronto a noi, pochissimo. Ma vuoi mettere Atene con una delle nostre città, oggi? Il fatto è che ad Atene si faceva un uso meraviglioso della lingua parlata, più che di quella scritta. (Poteva invece confrontarsi con Atene la Firenze di Lorenzo il Magnifico.)
# 2 – Milano, in effetti, in altri tempi, è stata la capitale, fra l’altre cose, dell’industria culturale. Però le nuove tecnologie, combinate con lo scadimento della qualità del lavoro editoriale, potrebbero portare a un crollo di tale primato milanese. Bergamo potrebbe rosicchiare qualcosa a Milano, forse ciò già avviene.
# 3 – Ripeto, il fatto che a Milano o a Bergamo ci sia una casa editrice non significa che ivi si faccia lavoro editoriale. Praticamente, il lavoro editoriale tende a scomparire. Per un discorso più articolato, rimando a quanto è scritto nel sito “Comminus eminus”: si veda ‘Retorica minimalista: l’editing dei libri’ e – in particolare, per quanto riguarda il degrado dell’industria culturale – ‘L’industria editoriale ieri e oggi’. Gli articoli sono consultabili a questi indirizzi d’Internet:
http://www.webalice.it/claudiusdubitatius/Trivium/Editing.htm
http://www.webalice.it/claudiusdubitatius/Nugae/Editoria.htm
L’industria culturale, quella seria, tende a scomparire per la stessa ragione per cui non esiste più in Italia un’industria manifatturiera medio-grande che non versi in gravissime difficoltà. Detto in soldoni:
A) Nell’industria non comandano più gl’ingegneri, non più i capi d’officina, ma manager senza arte né parte, sacerdoti di una religione misterica della quale assolutamente non si sentiva bisogno: personaggi parassitari che hanno conseguito un master alla Bocconi insieme alla Santanché (come lei si è vantata ultimamente).
Analogamente: B) Nell’industria culturale comandano sciacquette editoriali (così le chiamo in uno dei due articoli sopra citati) che hanno fatto carriera più o meno come spiegava Bianciardi nella “Vita agra”. In pratica, oggi, facendo il diavolo a quattro per tagliare i costi. Il che si ottiene abbassando la qualità e assegnando il lavoro editoriale (in realtà, uno schifosissimo lavoro di editing, culturalmente dequalificato) in “outsourcing”, pagato una miseria a lavoratori senza uno straccio di potere contrattuale.
# 4 – Se qualcuno pensa ch’io esageri i danni prodotti sul sistema industriale italiano dalla gestione manageriale, svincolata dai contenuti tecnici e culturali, veda in proposito un libriccino aureo e profetico, scritto da un sociologo, una volta tanto, serio: Luciano Gallino, ‘La scomparsa dell’Italia industriale’, Einaudi, Torino 2003.
# 5 – Attenzione all’industria culturale indotta dalle Università. I libri che ne escono sono spesso merce avariata in partenza. Il discorso sarebbe lungo, ma, semplificando: c’è qualcuno (o qualcuna) che ha una bella carriera prefigurata, per meriti universitari ed extrauniversitari. Perciò deve pubblicare: se pubblica un libro, meglio. Ma una casa editrice non è un ente di beneficenza. Se deve pubblicare un libro che sa che non sarà venduto, vuol essere pagata. Provate a indovinare chi paga. Ed ecco spiegato il mistero del numero incredibile di titoli pubblicati ogni anno in Italia. In pratica, abbiamo quasi più scrittori che lettori (nel campo della produzione poetica è proprio così). Lo so, il discorso è tagliato con l’accetta, qualcuno vorrà mettere i puntini sulle “i”. Ma intanto vorrei che se ne parlasse. E poi, ripeto, un discorso più articolato si trova nelle due pagine d’Internet citate.
# 6 – Per una rinascita dell’industria culturale occorre far pagare il giusto (cioè, devono essere più cari) i libri di valore. Che non sono quelli con le foto di Toscani, ma quelli curati bene. Non capisco perché un vino buono possa costare di più, e nessuno protesta; invece i libri devono essere a prezzo omologato.
# 7 – Non è certo una consolazione: ma anche in America, anche in Inghilterra, l’industria culturale è scaduta a livelli bassissimi. Lo so per esperienza, perché lavoro anch’io in quel che resta dell’industria culturale.
4 Comments
Claudio
Mutuando una metafora di Alberto Arbasino in riferimento alle tante mostre organizzate in Italia ovvero che "il sonno della ragione genera mostr…e" non potrebbe essere anche che "il sonno della ragione genera … case editrici"?
Aristide
Questa volta intervengo come Aristide (sono affezionato al marchio). L’argomento dell’industria editoriale è, come dicono gl’inglesi, “momentoso”, cioè di un qualche momento. Quella che chiamano industria editoriale, infatti, non è più editoriale, nel senso nobile dell’“ecdotica”, ma un’industria di disseminazione triviale della carta stampata, non migliore di quella dei giornaletti distribuiti nei budelli delle metropolitane. Peraltro l’impostazione attuale dell’industira editoriale è destinata al fallimento, nel momento in cui le nuove tecnologie mettono in discussione la rivoluzione di Gutenberg.
Insomma, l’informazione stampata non è morta, come pure si dice, ma è comunque periclitante, se non si compie una svolta verso la qualità: tutto il contrario di quanto postulato da una visione manageriale, anticulturale e corriva con le pubbliche relazioni.
Siamo peraltro uomini di mondo, capiamo benissimo certe impostazioni dettate, più che dal mercato, da una volontà di dominio sul mercato.
P.S. – La cosa non è di strepitosa importanza, ma se a qualcuno interessa sapere perché sia affezionato al “nom de plume” di Aristide, si veda:
http://www.testitrahus.it/Aristide%20Murru.htm
Saluti
Claudio
Condivido Aristide! Sono d'accordo che le logiche di mercato alla fine vincano su tutto e soprattutto su quelle che i nostri avi chiamavano "arti" o "discipline" ma "carere non potest fame, qui panem pictum lingit"! Sarebbe bello quindi che ci si soffermi un po' di più nel leggere e valutare quanto viene scritto,magari, cercando anche di allenarci ad una maggior capacità di selezione e di interpretazione. Potrebbe aiutarci anche a recuperare una attiva partecipazione alla gestione di quelle cose comuni che ci "abitano" intorno invece di vederci sempre più passivi e indifferenti.
Aristide
Ringrazio Claudio per avermi fatto riflettere su questa affermazione di Agostino, un invito a guardare la sostanza delle cose, a non farsi ingannare dall’immagine. Se uno ha fame, altro è mangiare del pane, altro guardarlo dipinto da qualche parte e leccare l’immagine del pane: quel pane non sazia.
Dunque quel “panis pictus”, quel pane dipinto, non è un “pane screziato”, come pure qualcuno ha creduto d’interpretare, ma è un pane effigiato su una tavola, o su una tela, o anche su una parete, se si tratta di un affresco. “Pane dipinto” è ambiguo, perché può significare sia “pane decorato”, come pure usa in alcune parti d’Europa, sotto Pasqua, sia pane rappresentato in effigie, quindi l’immagine del pane. Ora non c’è dubbio che la seconda interpretazione sia quella giusta, proprio perché Agostino dice “lingit”, dunque lecca e non mangia, e l’immagine può soltanto essere leccata.
Ecco, quando l’industria culturale funziona per davvero, quando ancora esistevano i “redattori draghi” dei quali Doris Lessing lamentava la scomparsa (vedi i due articoli sull’industria culturale citati sopra), questa ambiguità non sarebbe sfuggita, ed essendo un’ambiguità inutile, sarebbe stata levata. Se l’ambiguità non era voluta da Agostino (“pictum” in latino è molto meno ambiguo che in italiano “dipinto”) perché non levarla? Questa sarebbe cortesia fiorita, nei confronti del lettore. Ma che cosa volete che importi di tali cortesie, a certi sciagurati che hanno dato alla vita un’impostazione basata, appunto, sull’apparenza? Perché è di questo che ci parla Agostino: il discorso è sulla ricerca ossessiva della felicità, quella che secondo alcuni sarebbe un diritto (e mai si sentì bestemmia così abnorme). Agostino ci dice che quella felicità compulsivamente ricercata (l’abito firmato, il Suv, la carriera, le vacanze prestigiose, perfino un giardino con i nanetti di gesso, nei casi più sciagurati) è un’immagine della felicità, mentre la vera felicità viene da Dio.
Ma torniamo al problema editoriale. Presentiamo qui di seguito l’originale latino, una traduzione italiana, una traduzione francese e una traduzione inglese. Segue considerazione finale.
1. «Sic enim carere non potest infelicitate, qui tamquam deam felicitatem colit et Deum datorem felicitatis relinquit, sicut carere non potest fame, qui panem pictum lingit et ab homine, qui uerum habet, non petit» Aug., De civitate Dei, IV, 23)
2. Così non può liberarsi dall’infelicità perché adora come dio la felicità e abbandona Dio datore della felicità, come non si può liberare dalla fame chi lecca un pane dipinto e non lo chiede alla persona che ha quello vero.
3. Car, il ne peut éviter l'infortune, celui qui adore la Félicité comme une déesse, au mépris du Dieu qui donne la Félicité. Apaise-t-il sa faim, ce malheureux qui promène sa langue sur l'ombre du pain, au lieu de demander à son frère le partage d'un véritable ?
4. For someone who worships happiness as a goddess, and abandons God the giver of happiness, cannot be without unhappiness, just as someone cannot be without hunger who licks a picture of bread and does not seek it from the man who has true bread.
La traduzione italiana non è sbagliata, per carità, ma ci induce a cacciarci in quelli che Massimo Piattelli Palmarini chiama i “tunnel mentali”. Per esempio, potremmo pensare anche noi – per stanchezza, perché no? – che quel “pane dipinto” sia un pane decorato con un pennello. E quella “persona” potrebbe essere il mio prossimo (come effettivamente intende Agostino, in questa sua analogia), oppure Dio (e di Dio effettivamente si tratta, in ultima analisi, ma su un altro piano, quello sul quale l’analogia viene proiettata: dunque, perché confondere i due piani?). Invece nel testo latino è chiarissimo: Agostino dice “ab homine”.
La traduzione francese è la più bella, secondo me, perché è il risultato di una comprensione del testo latino che poi viene espressa al meglio secondo le possibilità della lingua nella quale avviene il “trasporto” (ho trovato questa traduzione nel sito dell’Università di Lovanio). Così si fa: prima si capisce, poi si traduce, e non il contrario (con il rischio, tra l’altro di capire male). Si tratta di rendere un’idea, e di renderla il più efficacemente possibile, perciò leggiamo nel testo francese «ce malheureux qui promène sa langue sur l'ombre du pain». Dunque il “panis pictus” diventa l’ombra di un pane. L’ombra è un’immagine, un’immagine proiettata. Perfetto.
Meno elegante, ma chiara, la traduzione inglese: «someone […] who licks a picture of bread», dove il pane viene leccato in effigie.
Ecco, un tempo nelle case editrici si dava importanza a questi dettagli, che oggi sono invece considerati quisquilie, come diceva Totò: diceva sempre, insieme, “quisquilie, pinzellacchere!”. L’avrà sentito da qualche avvocato napoletano. “Quisquiliae”, in latino, sono i rifiuti. Ora, il problema è tutto qui: una cura dei testi un po’ decente è veramente così disdicevole, roba da portare all’immondezzaio, come sostengono i managerini produttivistici? Manco fossero il Lulù del film di Petri “La classe operaia va in paradiso”, quello che diceva nella sua foga di cottimista: «Un pezzo, un c…; un pezzo, un c…». Un po’ di decenza, diamine!
Dunque, ha ragione Claudio che nel post precedente fa voti perché i lettori si ribellino alla sciatteria imperante.