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  1. 1

    Don Carlo

    Riprendo da Avvenire:

    Il programma del Papa? Solo il Vangelo
    Quello qui pubblicato è il testo – quasi integrale – dell’introduzione scritta da monsignor Georg Gaenswein, segretario particolare del Papa, al libro «Gesù di Nazaret all’università. Il libro di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI letto e commentato negli atenei italiani» edito dalla Libreria editrice vaticana (pp. 300, euro 18) a cura di Pierluca Azzaro. Il volume raccoglie i testi degli interventi pronunciati in occasione della presentazione del «Gesù di Nazaret» di papa Ratzinger fatta in dieci università italiane, secondo un progetto – ricorda Azzaro nella presentazione – che «nasce da un’intuizione del direttore della Libreria Editrice Vaticana, don Giuseppe Costa». (G. C.)

    “Non è passato troppo tempo da quando qua e là dei professori universitari deridevano quegli studenti di teologia che citavano le opere di Joseph Ratzinger. Molti consideravano il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede il gendarme del Papa, anche solo in forza di quel suo ufficio. In effetti, il cardinale divenne come una spina nel fianco di un mondo postmoderno nel quale la questione della verità è considerata priva di senso, di una società dell’opulenza e dell’avidità che sembra sempre più voltare le spalle a Dio; era un uomo scomodo che, senza tanto discutere, aveva preso su di sé un giogo pesante. Ma chi è in realtà quest’uomo? Come fu possibile che, nell’arco di sole ventiquattr’ore dalla sua elezione a Romano Pontefice, trasmise un’immagine di sé completamente diversa? Insieme agli abiti aveva forse cambiato anche la propria natura? Oppure eravamo noi stessi ad avere una falsa idea di questo studioso di Dio tanto saldo quanto umile? È venuto il tempo di sottoporre a una profonda revisione l’immagine che alcuni media hanno prodotto dell’ex Prefetto. E questo non solo per fare giustizia a una grande personalità, ma anche per potere ascoltare senza pregiudizi cosa ha da dire quell’uomo che sta sul trono di Pietro. Il ministero di supremo pastore della Chiesa possiede una dimensione che fa sì che possano esprimersi nel modo più pieno e limpido la natura dell’uomo Joseph Ratzinger ed i doni che gli sono stati dati. In questo il Papa non è un politico ed il suo pontificato non è un progetto. Non si tratta né di esercitare una singolare creatività, né di mettersi in particolare rilievo. Non è un caso che la parola “Provvidenza” venga spesso utilizzata dal Papa. Il 24 aprile 2005, alla Messa per l’inizio del ministero petrino, Benedetto XVI affermò dimostrativamente di rinunciare ad un «programma di governo»; perché, in realtà, quel programma era stato già fissato da tempo, da circa duemila anni per essere precisi.

    E il Papa disse chiaro e forte: «Il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia». Dal giorno in cui pronunciò quelle parole sono passati 7 anni. Per un pontificato non si tratta certo di un lungo periodo, e tuttavia è un lasso di tempo sufficiente per tracciare un primo bilancio. Per che cosa si batte Benedetto XVI? Che messaggio vuol portare agli uomini? Cosa lo muove e cosa è riuscito lui stesso a smuovere? Quale «servo dei servi di Dio», è d’esempio con la sua bontà, cura la collegialità fra i pastori, concentra il suo ministero sull’essenziale, in primo luogo sul rinnovamento nella fede, sul dono dell’Eucaristia e sull’unità della Chiesa. Ed evidentemente, proprio grazie al rafforzamento di queste fondamenta e in virtù del lascito del suo grande predecessore è riuscito in quello che, in un lasso di tempo così breve, ben pochi credevano possibile: la rivitalizzazione della Chiesa in un tempo difficile. Nlla curia ha dato nuova linfa a forme antiche e al contempo ha potato rami secchi. (…)

    La questione di Dio non è qualcosa che appartiene al passato; al contrario: è attualissima; perché l’uomo trova il suo compimento in una vita che si abbevera alla fonte della fede cristiana. Questo è il messaggio fondamentale delle omelie e dei discorsi di Benedetto XVI. Perché solo Dio libera l’uomo dal peccato e dalle difficoltà di questa vita. Allo stesso modo ha destato in noi meraviglia come l’ex Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, con il suo calore e la sua semplicità così spontanea e vera, riesca senza sforzo alcuno ad avvincere il cuore degli uomini. Notevole è anche il suo coraggio: Benedetto XVI non teme il confronto e i dibattiti. Chiama per nome le insufficienze e gli errori dell’Occidente, critica quella violenza che pretende di avere una giustificazione religiosa. Non smette mai di ricordarci che si voltano le spalle a Dio con il relativismo e l’edonismo non meno che con l’imposizione della religione attraverso la minaccia e la violenza. Al centro del pensiero del Papa sta la questione del rapporto tra fede e ragione; tra verità e libertà, tra religione e dignità dell’uomo. La nuova evangelizzazione dell’Europa e di tutto il mondo, ci dice il Papa, sarà possibile quando gli uomini comprenderanno che fede e ragione non sono in contrasto, ma in relazione tra loro. Una fede che non si misura con la ragione diviene essa stessa irragionevole e priva di senso. E, al contrario, una concezione della ragione che riconosce unicamente ciò che è misurabile non basta per comprendere l’intera realtà. In fondo, al Papa interessa riaffermare il nocciolo della fede cristiana: l’amore di Dio per l’uomo, che trova nella morte in croce di Gesù e nella sua risurrezione l’espressione insuperabile. Questo amore è l’immutabile centro sul quale si fonda la fiducia cristiana nel mondo, ma anche l’impegno alla misericordia e alla carità, la rinuncia alla violenza. Non a caso la prima enciclica di Benedetto XVI è intitolata Deus caritas est, «Dio è amore». È un segnale chiaro; di più, una frase programmatica del suo pontificato. Benedetto XVI vuole far risaltare, in tutto il suo splendore, la grandiosità della verità cristiana. L’uomo trova la sua pienezza e il suo compimento in una vita che si disseta alla fonte della fede. È un punto centrale questo. Nella prospettiva del Santo Padre, sta qui la forza e anche la possibilità di futuro per la fede. Il messaggio del successore di Pietro è tanto semplice quanto profondo: la fede non è un problema da risolvere, è un dono che va scoperto nuovamente, giorno per giorno. La fede dà gioia e pienezza. Più di ogni altra cosa è questo che caratterizza il pontificato del Papa teologo. Ma questa fede non è affatto avulsa dal mondo e dalla storia. È una fede cha ha un volto d’uomo, il volto di Gesù Cristo. In lui, il Dio nascosto è divenuto visibile, tangibile. Dio, nella sua grandezza incommensurabile, si dona a noi nel suo Figlio. Al Santo Padre preme annunciare il Dio fatto carne, urbi et orbi, a piccoli e grandi, a chi ha potere e a chi non ne ha, dentro e fuori la Chiesa, che lo si gradisca o meno. E anche se tutti gli occhi e le telecamere sono puntati sul Papa, non si tratta in definitiva di lui. Il Santo Padre non mette al centro se stesso, non annuncia se stesso, ma Gesù Cristo, l’unico redentore del mondo. Chi vive in pace con Dio, chi si lascia riconciliare con lui, trova anche la pace con se stesso, con il prossimo e con la creazione che lo circonda. La fede aiuta a vivere, la fede regala gioia, la fede è un grande dono: questa è la convinzione più profonda di Papa Benedetto. Per lui è un sacro dovere lasciare tracce che conducano a questo dono. E di questo dono egli vuole rendere testimonianza, «in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra»”.

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  2. 2

    Arianna

    OMELIA DEL CORPUS DOMINI

    «Eucaristia cuore pulsante della nostra vita»Immagine pagina

    Cari fratelli e sorelle!
    Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.
    Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento. E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II ha penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane naturalmente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti – come spesso avviene – per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro. In questo caso, l’accentuazione posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.

    In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.

    A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani – ricordo ad esempio quelle di Colonia, Londra, Zagabria, Madrid. E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso. Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita. Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale. Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).

    Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato. La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita.

    Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo. Amen.

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  3. 3

    Don Carlo

    Mi sembra interessante intervenire riguardo alla tempesta abbattutasi sulle strutture vaticane, e sulla Chiesa in senso più lato, nel recente periodo. Questo per esplicitare un mio personale punto di vista, magari non qualificatissimo, però sufficientemente attento e informato, che serve almeno a introdurre un punto di vista diverso rispetto alla unilateralità con cui si è direttamente attaccato il nostro straordinario Pontefice.
    A Benedetto XVI rimproverano la debolezza di comando. Niente di più sbagliato e falso. Accanto a una dolcezza e mitezza di carattere che affascinano, insieme alla Sua profonda fede e scienza, Sua Santità ha da sempre manifestato, anche quando era “semplice” docente universitario, una determinazione sui princìpi fondamentali e sulle conseguenti azioni che è figlia della sua cultura alpina, bavaro-tirolese nello specifico. Potenzialmente rivoluzionaria, mi vien di dire.
    Se appena si osserva la Sua serenità nell’avversa temperie, clamorosamente manifestata anche nella recente visita apostolica a Milano, qualche domanda ce la si dovrebbe pur porre: o è un totale incosciente oppure è veramente sereno.
    Riflettendo, si constata che tutti i grandi conflitti di questo pontificato sono nati da Sue decisioni di governo. Forti e controcorrente, come dimostrano anche i retroscena della cacciata di Ettore Gotti Tedeschi dallo IOR
    Sandro Magister, apprezzatissimo vaticanista e molto vicino agli appartamenti papali, osservando il grande disordine in una curia vaticana dilaniata dai conflitti, effetto della sua irreformabilità dopo due anni di tentativi papali in tal senso, ha esattamente osservato che oggi può fungere da cartina di tornasole rispetto all’azione papale stessa l’ultimo degli eventi venuti alla luce, appunto quello relativo alle vicende relative alla sostituzione del prof. Gotti Tedeschi alla guida dell’Istituto per le Opere di Religione.
    Come è ovvio, mentre siamo tutti coinvolti nella prima guerra finanziaria mondiale, anche in Vaticano, Stato sovrano, il conflitto più esplosivo è oggi combattuto nel campo della finanza. Combattuto senza carità né verità, a dispetto del titolo dell’enciclica di Benedetto XVI, la “Caritas in veritate”, che su tali punti interviene con soave durezza.
    Questo conflitto ha stupito il mondo per l’inaudita brutalità con cui il 24 maggio il prof. Ettore Gotti Tedeschi è stato estromesso dalla carica di presidente e membro dell’Istituto per le Opere di Religione, cioè la banca vaticana.
    Ma il carattere ancor più stupefacente di questo e di altri scontri in atto oggi nella curia e nella Chiesa è che Benedetto XVI ne è l’origine prima: potrei forse ipotizzare che, nei fatti e secondo la Sua visione, in un modo o nell’altro, anche quelle strutture, in parte marce, debbono cambiare nel profondo.
    Quindi, nessuna debolezza di comando, come universalmente si sostiene, sbagliando.
    Ma, al contrario,: per chiari e forti atti di governo da lui compiuti.
    Con un’audacia consapevole delle opposizioni che suscita.
    Le ragioni che ritengo vere, infatti, per le quali il consiglio di sovrintendenza dello IOR ha estromesso Gotti Tedeschi non sono quelle elencate nell’atto di sfiducia. Sono tutt’altre, a mio avviso. Sono le stesse che già nel dicembre di due anni fa avevano provocato il primo serio scontro tra il presidente dello IOR e il segretario di Stato Tarcisio Bertone.
    Nel dicembre del 2010 erano pronte per essere promulgate in Vaticano nuove norme che avrebbero aperto la strada all’ammissione della Santa Sede nella “white list” degli Stati europei con i più alti standard di trasparenza finanziaria, e quindi di contrasto al riciclaggio di denari illeciti.
    Per redigere queste norme, e in particolare la legge poi contrassegnata con il numero 127, Gotti Tedeschi e il cardinale Attilio Nicora, all’epoca presidente dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica – un organismo vaticano che svolge anch’esso funzioni bancarie –, avevano chiamato i due più autorevoli esperti italiani in materia, Marcello Condemi e Francesco De Pasquale.
    Ma subito, prima ancora che tali norme fossero promulgate e prima ancora che fosse istituita l’Autorità di Informazione Finanziaria da esse prevista, dotata di poteri illimitati di ispezione su ogni movimento di denari compiuto da qualsiasi ufficio interno o collegato con la Santa Sede, si scatenò contro entrambe queste novità un’opposizione durissima.
    L’opposizione era forte soprattutto da parte del management dello IOR. E trovava sostegno nel cardinale Bertone (il classico elefante in un negozio di cristalli, a mio avviso messo lì apposta, e non per caso strano).
    Il direttore generale dello IOR, Paolo Cipriani, e gli altri componenti del management opponevano una strenua resistenza a che si togliesse il segreto sui conti depositati nella banca, cifrati e non, su alcuni dei quali la magistratura italiana ha aperto delle indagini, sospettandoli di malaffare, soprattutto correlato alla criminalità organizzata. Secondo loro, la segretezza dello IOR era pilastro irrinunciabile dell’autonomia dello Stato della Città del Vaticano come Stato sovrano. Era loro convinzione che la segretezza e il suo carattere di banca “offshore” fossero anche ciò che rendeva lo IOR più attraente di altre banche, per la sua clientela internazionale. E che senza di ciò, sarebbe stato condannato a chiudere i battenti.
    Ma il 30 dicembre 2010 Benedetto XVI in persona, con un motu proprio – cioè con un atto di governo da lui personalmente firmato – promulgò le nuove norme senza cambiare una virgola della stesura che aveva sollevato tanta opposizione. E istituì l’AIF con tutti i suoi poteri ispettivi, mettendole poi a capo il cardinale Nicora.
    Con questo motu proprio e con l’enciclica “Caritas in veritate” Benedetto XVI ha tracciato una linea di marcia chiarissima. Per un definitivo passaggio delle attività finanziarie vaticane a un regime di trasparenza massima, internazionalmente controllata e riconosciuta.
    Ma l’opposizione alle nuove norme e ai poteri dell’AIF non cessò affatto dopo la loro entrata in vigore, pur se decisa dal Papa in persona. Anzi, crebbe d’intensità.
    Lo scorso autunno, la segreteria di Stato e il governatorato della Città del Vaticano, d’intesa col management dello IOR, riscrissero da capo la legge 127. E il 25 gennaio 2012, per decreto, fecero entrare in vigore la nuova versione, che limitava fortemente i poteri ispettivi dell’AIF.
    Gotti Tedeschi e il cardinale Nicora hanno contestato duramente tale rovesciamento di linea, prima e dopo la sua messa in opera. A loro giudizio esso costerà la non ammissione della Santa Sede alla “white list”, come ha già fatto presagire lo scorso marzo un’ispezione in Vaticano di Moneyval – il gruppo del Consiglio d’Europa che valuta i sistemi antiriciclaggio dei vari paesi – conclusasi con un giudizio sfavorevole sulla seconda versione della legge 127: otto note negative contro solo due positive, mentre per la precedente versione le note a favore erano state sei, e quattro le negative.
    E siamo alla defenestrazione di Gotti Tedeschi. Concordata tra il board dello IOR e il cardinale Bertone, contrariamente a quanto asserito in pubblico da un membro dello stesso board, l’americano Carl Anderson, presidente dei Cavalieri di Colombo.
    Quel 24 maggio, infatti, la riunione del consiglio di sovrintendenza dello IOR che ha sfiduciato Gotti Tedeschi – e il cui resoconto è stato reso pubblico dal consigliere Anderson – è stata preceduta alle 13.30, mezz’ora prima del suo inizio, da un incontro dei consiglieri col cardinale Bertone, un incontro da lui convocato, presente anche il direttore dello IOR Cipriani.
    E nei giorni precedenti sia Anderson che un altro consigliere, il tedesco Ronaldo Hermann Schmitz, avevano riservatamente scritto al cardinale Bertone per annunciargli la loro intenzione di votare la sfiducia a Gotti Tedeschi, “certi di appoggiare la giusta indicazione di Sua Eminenza”.
    In queste stesse lettere al segretario di Stato – rese pubbliche il 9 giugno da “Il Fatto Quotidiano” (Paoletto Gabriele, il cameriere di Sua Santità, nel frattempo era già nei guai) –, Anderson e Schmitz rimarcavano la loro preoccupazione per il crescente isolamento internazionale dello IOR, in particolare per l’interruzione dei rapporti con esso da parte della grande banca americana JP Morgan. E incolpavano di ciò lo “stravagante” Gotti Tedeschi.
    Ma, anche qui, è evidente che non è questa la vera ragione del calo del rating internazionale dello IOR. Lo è invece la sua anomalia, la sua perdurante mancanza di trasparenza.
    Gotti Tedeschi aveva sempre tenuto informato il segretario personale di Benedetto XVI, Mons. Georg Gänswein, del suo operato alla presidenza dello IOR e delle opposizioni incontrate.
    Dal Papa in persona, in più di una occasione, aveva ricevuto il “mandato” esplicito a procedere verso la piena trasparenza.
    E al Papa Gotti Tedeschi, dopo la sua cacciata dallo IOR, voleva far giungere un memorandum completo sull’intera vicenda.
    Ma oggi queste sue carte e la corrispondenza sono state requisite dalla magistratura italiana, nel corso di un’ispezione giudiziaria compiuta il 5 giugno nella sua casa di Piacenza e nel suo ufficio di Milano.
    E subito stralci delle carte e dell’interrogatorio hanno cominciato ad uscire sui media, come avviene sistematicamente in Italia in spregio del segreto istruttorio.
    E anche dagli uffici vaticani hanno ricominciato ad uscire carte riservate. Oltre alle due lettere di Anderson e Schmitz, è venuta alla luce anche una lettera scritta lo scorso marzo al direttore generale dello IOR, Paolo Cipriani, da uno psicoterapeuta di sua fiducia, Pietro Lasalvia, con una diagnosi disastrosa dello stato di salute psichica di Gotti Tedeschi, desunta da un’occasionale osservazione del medesimo durante un incontro con i dipendenti della banca vaticana per gli auguri dell’ultimo Natale.

    Ci fermiamo qui, per ora, ma una osservazione è d’obbligo: Il conflitto scatenato in Vaticano dall’operazione trasparenza ha avuto Benedetto XVI non come spettatore, ma come protagonista attivo. Sua è la linea di marcia tracciata. Suo è il motu proprio del 30 dicembre 2010 che ha introdotto le innovazioni.
    La rivincita presa oggi dagli oppositori non è, infatti, capace di cancellare l’orientamento impresso dal Papa. Esso resta vivo, nonostante tutto. E resta vivo anche nell’opinione pubblica, convinta che Benedetto XVI sia per la trasparenza vera, mentre tanti altri personaggi vaticani non lo sono, anche se a parole la predicano. Rivoluzionario o no, tale comportamento?

    Naturalmente, quello finanziario non è l’unico terreno sul quale Benedetto XVI è intervenuto con atti di governo, nei suoi anni di pontificato.
    Su altri e non meno importanti ambiti questo grandissimo Papa ha preso decisioni forti, di carattere normativo, pur consapevole di creare con esse resistenze e divisioni.
    Eccone una sommaria enumerazione:
    – Nel 2007 Benedetto XVI, col motu proprio “Summorum pontificum”, ha liberalizzato l’uso del messale romano di rito antico.
    – Nel 2009 ha revocato la scomunica ai quattro vescovi consacrati illecitamente dall’arcivescovo Marcel Lefebvre e col motu proprio “Ecclesiæ unitatem” ha avviato il percorso per il ritorno dei lefebvriani nella piena comunione con la Chiesa.
    – Ancora nel 2009, con la costituzione apostolica “Anglicanorum coetibus”, ha normato il passaggio alla Chiesa cattolica di intere comunità anglicane con i loro vescovi, sacerdoti e fedeli.
    – Nel 2010 ha promulgato nuove regole, molto severe, riguardanti i “delicta graviora”, e in particolare gli abusi sessuali su minori, scandalo che Lui stesso ha fatto esplodere in tutta la sua gravità e che la curia in precedenza tendeva a tenere occultato.
    – Ancora nel 2010 ha promulgato il citato motu proprio per la trasparenza finanziaria.
    – Nel 2011, con l’istruzione “Universæ ecclesiæ” ha promulgato nuove norme ad integrazione di quelle sulla messa in rito antico.

    Ebbene, non c’è nessuno di questi atti di governo compiuti da Benedetto XVI che non abbia suscitato controversie, contrapposizioni, conflitti. E, attenzione!, Benedetto XVI non ha mai pensato di ricomporre queste divisioni a colpi di provvedimenti disciplinari, o con nomine o destituzioni spettacolari. La Sua arte di governo è da sempre quella di accompagnare le decisioni normative – come i motu proprio citati – con un’opera di convincimento sulle ragioni profonde di tali decisioni.
    Così, per esempio, le Sue iniziative per sanare lo scisma con i lefebvriani sono state precedute e spiegate dal memorabile discorso alla curia del 22 dicembre 2005, sull’interpretazione del Concilio Vaticano II come “rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa”.
    La Sua liberalizzazione del rito antico della messa è accompagnata da un’incessante illustrazione delle ricchezze di entrambi i riti, l’antico e il moderno, incoraggiati a fecondarsi reciprocamente, come già avviene sotto gli occhi di tutti nelle liturgie da Lui celebrate.
    La Sua decisione di istituire per le comunità anglicane entrate nella Chiesa cattolica degli ordinariati con gerarchia e rito proprio si accompagna a una ridefinizione “sinfonica” del cammino ecumenico con le comunità cristiane separate da Roma.
    La Sua coraggiosa azione di guida nell’affrontare lo scandalo degli abusi sessuali si accompagna a uno sforzo instancabile di rigenerazione intellettuale e morale del clero, culminato nell’indizione di un anno sacerdotale, con la riaffermazione saldissima della legge del celibato. In più, Benedetto XVI ha messo in stato di penitenza intere Chiese nazionali, come l’irlandese. E non ha risparmiato, come visto, i centri di potere che al riguardo si sono mostrati insufficienti o inadeguati, coi loro legami politico-finanziari.
    Ed ecco le Sue decisioni a favore di una trasparenza massima delle attività finanziarie della Santa Sede, che debbono essere inscindibili dalla lettura teologica di questo campo dell’agire umano che Egli ha fatto nell’enciclica “Caritas in veritate”.

    Chi ha orecchi per intendere intenda. È la mite fermezza di governo di questo papa. le rivoluzioni gandhiane sono possibili, e si fanno con questi metodi, anche duri e rivoluzionari.

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  4. 4

    maria

    Credo che nei suoi due articoli don Carlo tratteggi un volto del Papa assai diverso da quello pubblicizzato, ma che appare più logico e coerente con gli atti che compie e con i loro effetti. Davvero interessante e singolare.

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