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  1. 1

    cristoph

    Leggo su http://www.bergamonews.it un’intervista all’onorevole Antonio Di Pietro, curnense di adozione.

    TITOLO: Il leader dell’Italia dei Valori loda il primo cittadino del paese in cui risiede: “Ma in generale rilevo una grande anomalia nella Lega tra quanto dicono e fanno: leghisti aprite gli occhi”. “A Curno I leghisti amministrano bene il comune”.

    CONTENUTO: Antonio Di Pietro, intervistato dalla Tribuna di Treviso, loda la Lega Nord a Curno. “Vivo a Curno, in provincia di Bergamo, dove il sindaco è leghista e secondo me sta amministrando bene”, la dichiarazione del leader dell’Italia dei Valori al giornale veneto. Poi, però aggiusta il tiro quando parla dei lumbard a pochi chilometri da dove risiede e a livello nazionale. “La Lega è protagonista anche di pessimi esempi di malcostume, guardate a Brescia ad esempio dove sono stati arrestati due assessori, i leghisti si fanno le scarpe, usano i dossier e si gettano fango addosso. In generale rilevo che nel partito di Bossi c’è una grande anomalia tra quello che predicano e praticano e credo che il popolo della Lega, cui guardo con rispetto, dovrebbe aprire gli occhi. Il federalismo? Chiacchiere e fumo, è centralismo allo stato puro”.

    COMMENTO di Aristide del 30/04/2011

    Dunque, Di Pietro si riferisce a Fassi e Donizetti, del Gruppo cons. “Lega nord per l’indipendenza della Padania”, del quale un tempo faceva parte anche il consigliere comunale e regionale Pedretti. Adesso, però, Pedretti cannoneggia a palle incatenate l’Amministrazione in carica, com’è noto, e ha costituito il gruppo secessionista “Lega Lombarda – Lega nord”. C’è inoltre una diffida contro Fassi, una sorta di anatema scagliato dal segretario provinciale della Lega nord, Ch. Invernizzi, il 7.12.10. Urge intervista (anglosassone) a Invernizzi.

    COMMENTO MIO E DEI MIEI FAMILIARI: per ora, nessuno. Abbiamo sempre votato Lega, e lo faremo certamente ancora, però nella chiarezza e nell’onestà, senza inganni, come sempre è stato. In fondo Di Pietro, il giustizialista, che ha interesse a seminar zizzania, sta dicendo che a Curno c'è una Lega "buona" e una "marcia", magari appoggiata a Bergamo e altrove. Può darsi che non sia vero, anzi, non sarà assolutamente vero, però è un dato di fatto che a Curno le Leghe son due, ognuna col suo simbolo di riferimento al partito e al movimento fondati da Bossi, ognuna con gente che si dichiara convintamente leghista… Fate voi!

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    Aristide

    IL RE È NUDO!

    Avendo trascorso la maggior parte della vita dalla parte degli “uomini contro” (come recita il titolo del bel film che Francesco Rosi ha tratto dal bellissimo libro ‘Un anno sull’Altipiano’), l’essere uscito vincitore da un procedimento giudiziario, seppure promosso dal politico “territoriale” Roberto Pedretti, mi mette quasi a disagio. Perciò non canterò vittoria, non è nelle mie corde: tanto più che i canti intonati dai vincitori sono solitamente sguaiati.

    Non posso però non gioire, sia pure sommessamente, nel considerare l’esito di questa “Pedretteide”: un esito locale, minimo, cronachistico, tutt’altro che epocale: me ne rendo conto benissimo. Sì, perché in questa Pedretteide si sono scontrati razionalità e istinto di potenza, delizie della dialettica e voluttà di denunciare, una concezione caritatevole, urbana e umanistica dei rapporti sociali, da una parte, e una concezione tribale, darwinistica e fondamentalmente anti-cristiana, dall’altra. Questa volta – vivaddio – hanno vinto la razionalità, la cultura, l’umanesimo. Ha vinto, last but not least, la buona novella.

    Tutto è cominciato nel momento in cui ho sfidato Pedretti a dirci la verità su quell’ispezione alla cosiddetta moschea di Curno, da lui fortemente voluta e ordinata di soppiatto ai tecnici del Comune. L’ispezione era stata predisposta in modalità di provocazione, un certo venerdì, in concomitanza con il momento di culto religioso settimanale della comunità islamica. Dunque in pieno contrasto con l’articolo 18 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo. Fortunatamente l’ispezione fu sventata e Pedretti, allora non ancora consigliere regionale, fu destituito dalla carica di vice-sindaco.

    Pedretti, dopo aver architettato il piano, scantonava dalle proprie responsabilità, negava la corretta ricostruzione dei fatti. La cosiddetta sinistra per ragioni di politichetta locale, preferì voltare la testa dall’altra parte, arrivò ad affermare che Pedretti era un “capro espiatorio”. Ed è così che si fece avanti Aristide, nelle pagine dei commenti di Bergamo News, dapprima, quindi – e più diffusamente – nel blog dell’Udc. Il quale blog dell’Udc proprio per gl’interventi di Aristide conobbe una rigogliosa fioritura, ma – presumibilmente – qualche grattacapo. Infatti, fu chiuso una prima volta, poi riaperto, poi chiuso definitivamente, nonostante l’orgogliosa rivendicazione d’indipendenza e indomito coraggio. Si veda la notizia del 31 luglio 2010: «Chiariamolo una volta per tutte: nessuno ci hai mai chiesto di chiudere il blog, nemmeno Pedretti!».

    La ‘Pedretteide’ (http://www.testitrahus.it/Pdf/Pedretteide_rev.4_con%20Appendici.pdf ) nasce di qui: contiene, infatti, una raccolta d’interventi pubblicati sul blog dell’Udc, nonché alcune battute scambiate su Bergamo news. Poi è venuto il sito Testitrahus (www.testitrahus.it ), per esporre le ragioni della buona politica contro i soprusi della politichetta.

    In altre parole, Aristide ha fatto quello che avrebbe dovuto fare la cosiddetta sinistra, se non si fosse arroccata in un atteggiamento di evasione etica. Così si è fatto in nome di un “principio superiore” (vedi http://www.testitrahus.it/Il%20principio%20superi… ).

    Le uniche armi delle quali Aristide disponeva per replicare a un uomo potente, da molti temuto, un politico “territoriale” (come ama definirsi) che non fa mistero di amicizie influenti, alcune forse millantate, altre certamente vere, erano l’ironia e la dialettica. Pedretti – non dimentichiamo – si compiace di dirsi vicino al ministro Calderoli, del quale è stato effettivamente il “topanta” (vedi il ‘Satyricon’ di Petronio): basta leggere la notizia del 12/02/2010 nel sito della Lega nord, sezione di Bergamo, dove Pedretti è definito «molto vicino a Calderoli». Per ragioni di brevità trascuriamo di soffermarci sull’amicizia di Pedretti con Renzo Bossi, meglio noto come “il Trota” (copyright: Umberto Bossi), che trascorse a Curno un proficuo periodo di studio domiciliato nello stesso condominio del Pedretti.

    Un’altra ragione dell’uso ricorrente dell’ironia, oltre che come arma residuale, si trova nella necessità di non permettere che gli argomenti nobili, eticamente circostanziati fossero – come usa dire – “buttati in caciara”. In altre parole, si è usata l’ironia per punire l’insolenza di personaggi (compreso il Pedretti) che nei due blog sopra citati facevano di tutto perché Aristide scendesse al loro livello. Così facevano nella consapevolezza che Aristide non sarebbe sceso a toni scurrili. Se non avesse usato l’ironia, Aristide sarebbe stato soccombente nel suo intento di indicare un comportamento pubblico inaccettabile e che non poteva esser lasciato passare sotto silenzio o, peggio ancora, raccontato con le parole del Pedretti. Il quale doveva, invece, essere inchiodato al tema etico-politico di fondo, l’ispezione alla c.d. moschea di Curno con modalità di voluta provocazione.

    Dunque, politiche ed etiche sono state le motivazioni dell’agire (e dello scrivere) di Aristide, contro il politico Pedretti e non contro l’uomo Pedretti. Tutt’al più, quando il politico Pedretti, ricorrendo all’abituale registro scurrile, ha detto «Aristide, tu non hai le palle», Aristide ha replicato: «Va bene, vuol dire che tu sei Testitrahus».

    In tutta questa faccenda la cosa più ridicola è che fu Pedretti a querelare Aristide: lui che in nove righe è riuscito a infilare ben sette insulti ( vedi blog dell’Udc, 30 novembre 2009: “vigliacco”, “frustrato”. “non hai il coraggio”, “versi letame”, “stupido”, “perverso”, “pirla”).

    A che cosa si deve tanta impudenza da parte di Pedretti? Forse al fatto che nessuno gli ha mai letto, quand’era bambino, la favola di Hans Christian Andersen ‘I vestiti nuovi dell’imperatore’, che qui di seguito riassumiamo in breve. C’era una volta un imperatore, molto vanitoso, al quale si presentarono due sarti molto imbroglioni. Dissero di essere capaci di cucirgli addosso un vestito meraviglioso, che soltanto le persone più intelligenti avrebbero saputo apprezzare. Di fatto, lo vestirono di niente. Lo stesso imperatore (che era anche re, come il nostro “sciaboletta”, Vittorio Emanuele III) non vide il suo abito, ma per non parere sciocco disse di apprezzarlo moltissimo. La fama dell’abito meraviglioso si diffuse tra i sudditi, i quali neanche loro videro l’abito del re, ma non osarono dir niente. Finalmente però un bambino prese la parola ed esclamò a voce ben alta, udito da tutti: “Il re è nudo!”. Così, dopo quel bambino, tutti possono prendere il coraggio di dire quello che in realtà hanno sempre visto, e che finora hanno avuto paura di dire.

    Ecco, secondo me c’era molta paura a Curno, e Aristide è stato un bambino avventato. Adesso speriamo che nessuno più abbia paura.

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  3. 3

    Kamella Scemì

    Fra i versi de "Il secondo avvento" di William Butler Yeats, ci sono forse quelli più citati della poesia del ventesimo secolo. «Crolla ogni cosa; il centro più non tiene; Anarchia pura esplode contro il mondo». Scritta nel 1920, questa poesia non solo riassume l’orrore del secolo ancora giovane, ma sembra prevedere gli orrori futuri.

    La postmodernità potrebbe anche essere, fino a un certo punto, una pretenziosa moda accademica, ma il suo terreno è costituito senza dubbio dal collasso di un centro autorevole e donatore di vita e dalla conseguente frammentazione vissuta quotidianamente nella cultura, nella politica e nella vita individuale.

    Un esito è l’emergere del «sé proteiforme», ma privo di carattere, che si perde nelle diverse personalità in cui deve continuamente e mutevolmente calarsi, ritratto in modo fantasioso nel film Zelig di Woody Allen. Si tratta di un sé privo di un centro, che si fonde senza sforzo nelle situazioni più disparate e caratterizzate da impegni non definitivi e non duraturi, ma è comunque capace di furia omicida.

    A incombere sul ventunesimo secolo non è più lo spettro di Marx, ma quello di Nietzsche, meglio, di una certa interpretazione delle opere del filosofo tedesco. La «morte di Dio» precipita in un abisso di nulla. Mentre molti lottano per riempire il vuoto con bagattelle sempre diverse di consumismo o con le infinite lusinghe dei mezzi di comunicazione sociale, alcuni indulgono in uno sfrenato desiderio di potere. E sembra regnare l’assenza, non la presenza.

    Di fronte a questa situazione culturale, «cultura di morte», come l'hanno definita uomini politici e di Chiesa, da Umberto Bossi a Papa Giovanni Paolo II, il credente cristiano può trovare nell’Eucaristia, per dirlo con le parole di un altro poeta, Thomas Stearns Eliot, «il punto fermo del mondo che cambia», il centro ardente del mondo, essendo l'Eucaristia il sacramento della presenza reale. L’Eucaristia, dunque, per il cristiano apre alla fede un nuovo mondo di persone che sono fra loro in una relazione, la cui forma e sostanza è la persona di Gesù Cristo, mediatore di essa. Esorta anche al nuovo sacerdozio dei partecipanti, alla loro graduale trasformazione in membra vive del corpo di Cristo. «Qui non vi è greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti» (Colossesi, 3, 11).

    Dunque, per chi non è cristiano, si tratta di ritrovare nella Parola di Dio, detta anche per lui nella Bibbia, anche per lui perché ha plasmato la civiltà e la cultura europee, l'elemento fondativo di una nuova relazione sociale, di civiltà e cultura; si tratta di trovare l’impeto nell’alimentare un movimento dalla frammentazione all’integrazione: come nell'Eucaristia il pane frazionato diviene lo strumento salvifico per riunire i tanti e il sangue versato ottiene l’espiazione del mondo, la Parola di Dio deve essere la bussola per alimentare pensieri di nuova comunione culturale, politica e civile, dimenticando, o essendo disposti a dimenticare, i torti subìti.

    L’Eucaristia, inoltre, è puro dono, grazia. Dio ama così tanto il mondo da donare il suo figlio unigenito. E il Figlio ci ama così tanto da continuare a donarsi per la salvezza del mondo, in nessun luogo più tangibilmente che nell’Eucaristia. Ebbene, il concetto di dono deve finalmente entrare con dignità piena nel mondo dell'economia, essendo finalmente consci del fatto che senza gratuità non si dà neppure il principio dell'economia.

    Infatti, l’Eucaristia è anche un imperativo, un compito. Esorta i credenti a permettere alla presenza di Cristo di trasformare sia se stessi sia il loro mondo. Invece del sé proteiforme e senza radici della post-modernità, l’Eucaristia promuove un sé con un centro, libero di dare generosamente come ha tanto generosamente ricevuto.

    L’Eucaristia alimenta un sé eucaristico e nello stesso tempo promuove un’etica eucaristica.

    Come è ben noto, il racconto dell’ultima cena nel Vangelo di Giovanni non narra l’istituzione dell’Eucaristia, come fanno gli altri Vangeli. Al posto suo troviamo invece Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli e li istruisce: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (13, 15). Quindi l’esortazione di Cristo «fate questo in memoria di me», ripetuta in ogni celebrazione eucaristica, comprende sia la frazione del pane sia il servizio permanente agli altri. Entrambe queste azioni eucaristiche sono svolte per la vita del mondo, per la realizzazione più piena della presenza di Cristo in tutti.

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  4. 4

    Kamella Scemì

    I forbiti interventi di Aristide mi inducono a riflettere sul ruolo della cosiddetta antilingua, che alla fin fine diventa un boomerang.

    A 33 anni dalla legge 194, che l’ha codificata e rispetto alla quale ho tenuto a suo tempo una "sorprendente" conferenza in quel di Besana Brianza insieme a Giuli e a Don Sergio – assidui lettori e interventori -, il professor Carlo Flamigni scopre ora ( l’Unità, 26 aprile) l’«antilingua», fatta – lui dice – di parole cui si «deve ricorrere per poter mentire senza essere contraddetto». Noi le chiamiamo «parole dette per non dire quello che si ha paura di dire».

    Per esempio: Ivg, contraccezione di emergenza, prodotto del concepimento… Flamigni, però, ha preso un boomerang: le sue osserva­zioni hanno per titolo 'Testamen­to biologico', che lui propugna, ma che è pura antilingua: testamento, infatti, è l’«atto con cui alcuno dispone per quando avrà cessato di vivere»; e biologico indica riferimento alla «scienza che studia i fenomeni della vita e le leggi che li governano» ( Palazzi ). Che c’entrano con la volontà di essere lasciato o fatto morire, che vale per quando si è ancora in vita? Di questa sua antilingua e dalla Legge 40 cita, per esempio: «Eterologo [che] in biologia significa frutto della relazione tra soggetti di due specie diverse». Posso condividere, a patto che lo si modifichi in 'adulterologo'. E poi «Infertile [che] non significa sterilità, ma incapacità di produrre una progenie sana» e invece è il contrario di fertile, fecondo, fruttuoso ( De Mauro). E ancora: «Gravidanza [che] inizia quando è terminato l’impianto dell’embrione, definizione dell’Oms» e che, invece tutti i dizionari linguistici e medici dicono che comincia con il concepimento. Come si sa, l’Oms riconosce i 'diritti' di aborto, alla salute riproduttiva e le relative pratiche e fa ciò che le pare, però – lo scrive proprio Flamigni –: «Embrione non significa niente se non si precisa: ovociti attivati, ovotidi, zigoti, morule, blastocisti, gastrule e così via». Considerazione finale: «Non sono mai stato molto impressionato della competenza scientifica dei teologi». E io di quella etica di certi scienziati… e di certi politicanti, perché, mutatis mutandis, ridotto il problema dalla legge 194 alle "mancanze" o "assenze" dei politicanti, come del caso, mi sembra che il mio ragionamento possa trovare qualche applicazione… O no?

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    Aristide

    NEOLINGUA E BIOETICA

    Faccio seguito all’intervento della nuziale e – vivaddio – non territoriale Kamelia Scemì. “Non territoriale”, perché lei, gentildonna turchessa in terra orobica, è radicata non già in un territorio fatto di zolle e pietre, di accertato valore catastale, magari anche asfaltato e concacato dai cani di compagnia delle vecchie babbione, ma in un territorio ingentilito dalla cultura (per fortuna non iscritto al catasto, men che meno asfaltato e non suscettibile di essere cacato). Non ho dubbi sul fatto che Kamelia ami la Turchia e Istanbul (se è nata a Istanbul, come mi piace credere), o Ankara o Efeso o anche a Megisti, che adesso appartiene alla Grecia ma fino al 1948 faceva parte della Turchia (è l’isola incantata che vediamo nel film ‘Mediterraneo’). In ogni caso, se Kamelia è nata in un palazzo di Istanbul, che già fu Bisanzio, quindi Costantinopoli, cioè nella capitale dell’Impero Romano d’Oriente (in seguito, dell’Impero bizantino), oppure in una casetta bianca tra gli scogli di Megisti, che differenza fa? Per noi Kamelia è quello che scrive, quello che pensa, quello che esprime e non c’è cupola di Santa Sofia a Istanbul o scoglio di Megisti che possano aggiungere o togliere un ette a quel che lei è. Non dimentichiamolo mai: come diceva Ovidio «Omne solum forti patria est». Non dimentichiamolo mai, e ricordiamolo ai buzzurri di casa nostra. Mistica territoriale? No, grazie.

    Ma vengo all’argomento di Kamelia, che fondamentalmente può esprimersi in questi termini: mistificazione linguistica vs. bioetica. Sono andato a vedere la fonte, cioè l’articolo pubblicato sull’Unità, il 26.4.11. Già il titolo è eloquente: “Testamento biologico – I furbetti delle parole: giocare con i termini per negare nuovi diritti”. Oddio, uno potrebbe domandarsi, facendo l’ingenuo: “Ma che saranno mai questi nuovi diritti? Non sono i diritti universali e, per così dire, ‘ab aeterno’?”. In realtà abbiamo capito benissimo, non saremo certo noi a fare i furbetti: detestiamo la furbizia, come gli antichi romani, che avevano in gran dispetto l’astus punicus. In ogni caso concordo con l’intervento precedente: lo stesso autore dell’articolo, Carlo Flamigni, fa il furbetto.

    Però, a ben vedere, che cosa potrei aggiungere di nuovo a quel che altri ha già detto meglio di me, meglio di quanto potrei mai sognarmi di dire, per quanto mi applicassi a svolgere l’argomento, con la massima serietà d’intenti? Farei la figura di un qualche giornalista anglorobicosassone. Invece d’imitare (male) gl’inglesi cedo volentieri la parola a due scrittori inglesi, esemplari per onestà intellettuale e lucidità immaginativa riguardo alla deriva scientista del potere: intendo George Orwell e Aldous Huxley.

    LA NEOLINGUA

    Scrive George Orwell in ‘1984’, Mondadori, Milano 1983, trad. di G. Baldini:

    «Fine della Neolingua non era soltanto quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali proprie ai seguaci del Socing [sta per “socialismo inglese”, l’deologia dominante nello stato di Oceania, immaginato da Orwell: N.d.R.], ma soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Era sottinteso come, una volta che la Neolingua fosse stata definitivamente adottata, e l'Archelingua, per contro, dimenticata, un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Socing) sarebbe stato letteralmente impensabile, per quanto almeno il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso. Il suo lessico era costituito in modo tale da fornire espressione esatta e spesso assai sottile a ogni significato che un membro del Partito potesse desiderare propriamente di intendere. Ma escludeva, nel contempo, tutti gli altri possibili significati, così come la possibilità di arrivarvi con metodi indiretti. Ciò era stato ottenuto in parte mediante l'invenzione di nuove parole, ma soprattutto mediante la soppressione di parole indesiderabili e l'eliminazione di quei significati eterodossi che potevano essere restati e, per quanto era possibile, dei significati in qualunque modo secondari. Daremo un unico esempio. La patola 'libero' esisteva ancora in Neolingua, ma poteva essere usata solo in frasi come "Questo cane è libero da pulci" ovvero "Questo campo è libero da erbacce". Ma non poteva essere usata nell'antico significato di "politicamente libero" o "intellettualmente libero" dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più, nemmeno come concetto, ed era quindi, di necessità, priva di una parola per esprimerla. Ma, a parte la soppressione di parole di carattere palesemente eretico, la riduzione del vocabolario era considerata fine a se stessa, e di nessuna parola di cui si potesse fare ameno era ulteriormente tollerata l'esistenza. La Neolingua era intesa non a estendere, ma a 'diminuire' le possibilità del pensiero; si veniva incontro a questo fine appunto, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta delle parole.La Neolingua era fondata sul ceppo della lingua quale noi la conosciamo, sebbene numerose frasi in Neolingua, pur se non contengano parole di nuovo conio, sarebbero scarsamente intelligibili per chi parla la lingua d'oggigiorno.»

    LA MANIPOLAZIONE GENETICA

    Fa specie, constatare come al giorno d’oggi coloro che si oppongono pregiudizialmente all’ingegneria genetica (le tecniche OGM, proprio tutte, “a prescindere”) applicata a organismi vegetali, tutt’al più animali, per soddisfare all’esigenza di incrementare il raccolto ecc., quando invece si tratti di manipolare l’uomo siano aperte a ogni possibile sperimentazione. E ciò che si è appena sperimentato vogliono che sia accessibile a tutti (“democratico”) e regolamentato da leggi che contemplino sempre nuovi e più avanzati “diritti”. Cicerone scriveva: «Omnia autem quae secundum naturam fiunt, sunt habenda in bonis». Cioè l’esser “naturale” è di per sé un criterio per giudicare la bontà di una cosa. Ma sono parecchi coloro che non se ne dànno per intesi, anzi pensano tutto il contrario. Vanno alla ricerca di ciò che contraddice alla natura. Al confronto, Carlo Verdone che nel film ‘Viaggi di nozze’ diceva a Claudia Gerini “Famolo strano” fa quasi tenerezza. Ma leggiamo che cosa scrive Aldous Huxley in ‘Ritorno al Nuovo Mondo’, Mondadori, Milano 1961, trad. di L. Bianciardi (il grande, superbo, eroico Luciano Branciardi, l’autore della ‘Vita agra’!):

    «Nel mondo nuovo della mia favola si praticavano normalmente l'eugenetica e il suo contrario, la disgenetica. In una serie di bottiglie, ovuli biologicamente superiori, fertilizzati da spermatozoi biologicamente superiori, ricevevano le migliori cure prenatali, e finalmente si decantavano nelle categorie Alfa, Beta, e persino Alfa Più. In un'altra serie di bottiglie, assai più numerosa, ovuli biologicamente inferiori, fertilizzati da spermatozoi biologicamente inferiori, subivano il Processo Bokanovsky (novantasei gemelli identici da un ovulo solo) e il trattamento prenatale con l'alcool e con altri veleni proteinici. Se ne decantavano creature quasi subumane, ma pur sempre capaci di lavoro non specializzato; anzi, opportunamente condizionate, e detensionate dal libero e frequente accesso al sesso opposto, sistematicamente distratte dai divertimenti gratuiti, reindotte ai moduli della buona condotta mediante dosi quotidiane di "soma", davano la garanzia di non infastidire mai i loro superiori.»

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