Da alcune settimane, anche precedenti il periodo di Avvento e il Natale, i brani evangelici domenicali ci hanno ammonito e ammoniscono circa il fatto che la venuta di Gesù e il Suo annuncio sono eventi epocali, che cambiano il corso della Storia. E, per i Cristiani, così è avvenuto e così avverrà anche in futuro. Eventi epocali che, secondo quanto riportato nei detti brani, per la stessa limitatezza dell’uomo, provocano e provocheranno guerre, distruzioni, lutti e, soprattutto, crolli di templi, incluse tutte le “divinità” ivi allocate. Quelle “divinità” il cui fondamento era ed è propiziatorio, quasi multiformi e deformanti specchi dei desideri inappagati di ciascuno, idoli ingannevoli e vani. di Francesco Nosari
Con l’invio di Gesù, il Padre che sta nei cieli e che ama l’uomo, col quale direttamente si rapporta, si sostituisce a tutti quegli idoli, cagionando uno sconvolgimento totale in quegli animi “specchiati”, che, nella sostanza, il proprio dio se lo volevano (e vogliono) costruire su misura. Da ciò la grande “offerta” di divinità oppure di riti, che consentivano (e consentono) all’uomo di non rinunciare a tale prerogativa, peraltro non osando questi affermare apertamente di essere lui, essere mortale, “nei fatti” il dio di se stesso.
Gesù, diversamente dai Suoi discepoli, è perfettamente conscio della cesura cagionata dalla Sua venuta fra gli uomini e dal Suo annuncio e, di seguito, delle relative conseguenze. Egli, discendente da stirpe regale, nato per la salvezza del Suo popolo e di tutta l’umanità, cresciuto in un’area territoriale segnata dai tanti Baal locali e soggiogata a un impero attraversato da irreversibile crisi religiosa, profondo conoscitore della Torah, avverte nell’intimo l’inconciliabiltà fra la Sua missione che va oltre la Legge e le usanze religiose vigenti, comprese quelle del Suo popolo, e sente il peso della tremenda ventata rivoluzionaria che reca seco.
Anche Giovanni, il Battista, che pure è colui che ha battezzato Gesù e l’ha riconosciuto, sente l’obbligo di chiederGli conferma se Egli sia il Messia tanto atteso: in certo senso, teme la terribile portata dell’evento, che può solo immaginare. La risposta di Gesù, a tal punto, non può che essere calata sulla straordinarietà del cammino da Lui appena intrapreso, irrefrenabile, scandaloso per i più. Infatti, – dice – saranno beati coloro che, intuendo o capendo, tale non lo riterranno, e, aggiungo io mettendomi nei panni di Giovanni che riceve quel tipo di risposta, a maggior ragione coloro che non trarranno scandalo dagli eventi ancora più straordinari, gloriosi e terribili che, inevitabilmente a tal punto, si succederanno. Il popolo, però, non vede e non capisce. Resta silente. Pensa solo a beneficiare di volta in volta dei poteri del Maestro/mago, e neppure gli passa per la testa che la straordinarietà non può mai essere a senso unico….
Ebbene, nel tempo successivo a quel primo annuncio, ai giorni nostri, quanti si sono posti almeno la domanda del Battista? Quanti sono andati oltre la ricerca della benevolenza di un Maestro/mago che, dopo la Risurrezione, è stato addirittura “promosso” al rango di Dio, in unità col Padre e lo Spirito?
Troppo pochi, evidentemente. Infatti, nonostante l’avvento del Padre che ama, annunciato da Gesù, continuano le guerre e le distruzioni di templi. Ex adverso, è altrettanto evidente che la ventata rivoluzionaria portata da Gesù è ben lungi dall’esaurirsi, ed Egli, Dio vivente, non cesserà di alimentarla finché anche l’ultima delle Sue pecore non sarà stata ricondotta in salvo nell’ovile.
Al fondamento delle continue tragedie umane, dunque, per il Cristiano, sta il mancato riconoscimento del Padre e dell’opera del Figlio, Dio fatto uomo. Anzi, oggi dovremmo riflettere sul fatto che, in realtà – non ci può sfuggire – gli dèi si sono moltiplicati a dismisura, quasi corrispondendo a ciascun individuo presente sul globo terrestre. E sul fatto che, a loro volta, questi miserabili piccoli dèi umani debbono costruire con le altre a loro similari “divinità” (cioè con quelli che la pensano in qualche modo come loro) degli idoli in cui comunque collettivamente riconoscersi. Siamo tornati al politeismo.
Questa parola – riferisce Sandro Magister in un magistrale (nomen omen) articolo pubblicato sul numero 50/2010 de L’Espresso – è balenata come un lampo, lo scorso ottobre, in un discorso di Papa Benedetto XVI al Sinodo dei vescovi del Medio Oriente, cioè proprio la terra natale dell’unico Dio fatto uomo, Gesù, e dei più potenti monoteismi della storia, quello ebraico e quello musulmano.
“Credo in unum Deum” è il poderoso accordo da cui ha principio la dottrina cristiana. Ma anche per Padre Joseph Ratzinger, papa teologo, il politeismo è tutt’altro che morto. È la sfida perenne che anche oggi si erge contro il Cristianesimo e contro le fedi nell’unico Dio.
“Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi”, proseguì il papa nel sinodo. I capitali anonimi, la violenza terroristica, la droga, la tirannia dell’opinione pubblica sono le moderne divinità, gli idoli collettivi che schiavizzano un uomo già disposto a schiavizzarsi da sè. Perché di schiavizzazione è ogni percorso egotistico, individuale o di gruppo che sia. Devono cadere quegli idoli. Devono essere fatti cadere. La caduta degli dèi, i tanti, troppi dèi, la sepoltura degl’idoli sotto le rovine dei loro templi è l’imperativo di ieri, di oggi, di sempre dei credenti nell’unico Dio vero.
Ma il politeismo di oggi – prosegue l’Autore – non è solo fatto di potenze oscure. I suoi molti dèi e idoli hanno anche volto benevolo e capacità di seduzione, le loro oscurità sono ben nascoste.
È la “gaia scienza” vaticinata da Nietzsche più di un secolo fa, che offre a ogni singolo uomo, aspirante dio, “il più grande vantaggio”: quello di “erigere il suo proprio ideale e derivare da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti”.
È il trionfo del libero arbitrio individuale, senza più il giogo di una tavola della legge, di una legge sola per tutti perché scritta da un unico intrattabile Dio. Ognuno di noi dio di se stesso, dunque, ma, ahimé! pur sempre bisognoso delle fallaci divinità collettive, gli idoli, di cui sopra. Quindi, un dio-non-dio, fin dall’inizio, in se stesso, ectoplasma di disperata, disperante e vuota contraddizione .
Spiega Sandro Magister: quell’ammirazione per il “Genio del cristianesimo” che aveva infiammato Chateaubriand e i romantici cede oggi il passo a una riscoperta entusiasta del “Genio del paganesimo”, titolo di un’operetta dell’antropologo francese Marc Augé.
In Italia un altro antropologo, Francesco Remotti, si scaglia contro “L’ossessione identitaria”, titolo del suo ultimo libro, e rimprovera il papa, in un altro suo libro in forma di lettera, per il suo ostinato procedere “contro natura”, contro una modernità (che sarebbe conforme a natura) che fa invece gustare le meraviglie del politeismo, così liquido, pluralista, tollerante, liberatorio, non direzionale, non contenitivo.
Certo, l’attuale reviviscenza del politeismo non riporta in voga i culti a Giove e a Giunone, a Venere e a Marte. Ma la filosofia dei pagani colti dell’impero di Roma riaffiora intatta nei ragionamenti di tanti moderni fautori del “pensiero debole”. E non solo di questi. Chi oggi rilegge, sedici secoli dopo, la disputa tra il monoteista Ambrogio, il santo patrono di Milano, da poco celebrato nella liturgia, e il politeista Simmaco, senatore della Roma pagana, è fortemente tentato di dare ragione al secondo, quando dice: “Che cosa importa per quale via ciascuno ricerchi, secondo il proprio giudizio, la verità? Non per una sola strada si può giungere a un così grande mistero”. Il fatto è che, per definizione, il mistero non si possa attingere, ma solo avvicinare, e le strade verso di esso possano essere bensì differenti, ma di direzione univoca. Se no, sono altra cosa, vanno da altra parte, sono strade di-verse.
La magnanima parità tra tutte le religioni e gli dèi che quelle parole sembrano ispirare incanta anche molti cristiani, specialmente quelli che, bona fide, son soltanto convinti di esserlo, magari pur tepidamente. Lo “spirito di Assisi” nato dall’adunanza multireligiosa che là si tenne nel 1986 ha così contagiato il diffuso sentire che nel 2000 la Chiesa di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinale Joseph Ratzinger si sentì in dovere di ricordare ai cattolici che di Salvatore dell’umanità ce n’è uno solo, ed è il Dio fatto uomo in Gesù: una verità su cui l’intero Nuovo Testamento sta o cade, una verità che in due millenni mai la Chiesa aveva sentito la necessità di ribadire con un pronunciamento “ad hoc”. Eppure, quella dichiarazione del 2000, la “Dominus Iesus”, fu accolta da un fuoco di fila di proteste, dentro la Chiesa e fuori, per la sua esclusione di una pluralità di vie di salvezza, ritenute tutte in sé sufficienti e piene di grazia e verità.
Non ultime, le neppur sommesse proteste della diocesi bergamasca, che hanno trovato eco negli stessi testi cosiddetti sinodali, in verità costituzioni vescovili… Il tutto nel filone di quell’interpretazione tranchante, cosiddetta “progressista”, del Concilio Vaticano II che ha avuto in don Giuseppe Dossetti uno dei massimi divulgatori, oggi peraltro apertamente e duramente criticato (vedi l’ultima edizione della “Memorie” di S.Em. il cardinale-teologo Giacomo Biffi).
Che in questi sentimenti si annidi la nostalgia per una pluralità di dèi non è cosa certa, è vero, ma solo possibile. L’odierno politeismo, infatti, a livello di massa, è parecchio sfumato.
L’idea corrente è che le varie religioni, all’interno delle quali viene annoverato acriticamente il Cristianesimo, siano a loro modo tutte espressione di un “divino”. E tuttavia questa divinità somma, come già spiegava ad Ambrogio il pagano Simmaco, – ci ricorda Sandro Magister – è inconoscibile e lontana, troppo lontana per appassionare gli uomini e prendersi cura di loro.
Da uno scrittore latino del III secolo, Minucio Felice, ci è giunto un altro dialogo, molto raffinato, nel quale il pagano Cecilio, passeggiando sul litorale di Ostia, dopo aver reso omaggio a una statua di Serapide, spiega che “nelle cose umane tutto è dubbioso, incerto, indeciso” ma proprio per questo è bene seguire la religione degli antichi e adorare “quegli dèi che i nostri padri ci hanno insegnato a temere, piuttosto che a conoscere troppo da vicino”.
In un’omelia in piazza San Pietro dello scorso 11 giugno, il nostro Papa Benedetto XVI ha detto che “stranamente questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo”. E in effetti un campione dell’età dei lumi come il miscredente Voltaire ordinava ai suoi familiari e alla servitù di ossequiare il Cristianesimo e i suoi precetti, per motivi di buona creanza civica. Del resto, che cosa c’è da conoscere in un idolo? Soltanto la ri-conoscenza della propria limitatezza, o della propria supponente deità. O, infine, della propria stupidità.
Dio c’è, forse. E forse è lui che ha creato il mondo. Ma poi se ne è talmente disinteressato da sparire dall’orizzonte vitale. La sua bontà è tutta nel non produrre disturbo alcuno. Liberatici dal “padrone”, troppo occupato altrove, i veri dèi diventiamo e siamo noi, ma non possiamo dirlo per non cadere nel ridicolo o rischiar di urtare la suscettibilità del “padrone”, che potrebbe tornare a far valere i suoi diritti, mettendoci in riga. Però, dobbiamo creare idoli per non essere dèi soli. Siamo dèi comunque azzoppati.
E così, sotto il cielo di quella divinità vaga e remota, la terra si è popolata di nuovi dèi. In divisa laica e pragmatica.
Ricorda l’Autore che già nell’Ottocento, nei suoi “Saggi sulla religione”, l’economista e filosofo John Stuart Mill scrisse che il politeismo era di gran lunga più funzionale del monotesimo nel descrivere quella pluralità di etiche che caratterizzava lo scenario di vita della prima società industriale; etiche di convenienza, anche di oppressione se del caso, ma di oppressione “etica”, ovviamente(secondo lui). E Max Weber, nel primo Novecento, coniò la formula di “Polytheismus der Werte”, cioè politeismo dei valori, proprio per indicare il pantheon della moderna società.
In un mondo ormai disincantato, senza più un unico Dio che proclami comandamenti validi per tutti, ciascuna delle sfere sociali – dalla politica all’economia, dall’arte alla scienza alla stessa religione – è ulteriormente retta da un suo dio multiforme, multioculare, quasi indùico, con i suoi oracoli. Oracoli spesso tra loro in conflitto, con l’uomo drammaticamente solo nell’ora della decisione. Il dio azzoppato, appunto, che abbraccia inutilmente i suoi idoli, di essi non sapendo seguire quale indicazione di quale dito di quale mano.
Weber, l’abbiamo letto nel testo recentemente riedito nella collana del Corriere della Sera attualmente in edicola, con l’impeccabile distacco dello studioso, non disse se questo moderno politeismo fosse un bene o un male. Ma altri pensatori venuti dopo di lui non nascondono più a cosa vanno le loro simpatie.
Rammenta Sandro magister che nel secondo Novecento, alla “teologia politica del monoteismo” propugnata da Erik Peterson (un autore tra i più letti e ammirati da Padre Joseph Ratzinger fin da giovane professore), il filosofo tedesco Odo Marquard contrappone una “teologia politica del politeismo”, e nel titolo del suo saggio loda tale politeismo con la qualifica di “illuminato”. A suo giudizio, l’uomo ha sempre bisogno di miti, e l’importante è che tali miti siano molti e aperti a infinite variazioni, come nella mitologia antica, all’opposto dell’ebraismo e del cristianesimo, che poggiano su fatti storici unici e incontrovertibili.
In Spagna, la filosofa Maria Zambrano, filosofa del diritto, ha puntato il dito contro l’ascetismo di matrice medievale della spiritualità cristiana, distruttivo dei sentimenti. È la poesia, a suo giudizio, che può liberare l’uomo dal “monolitismo” e restituirlo al suo gioioso politeismo nativo.
In Italia è lo stimatissimo prof. Salvatore Natoli il filosofo che difende una “etica del finito”, un insieme cioè di riferimenti “politeistici”, multipli, che offrano all’uomo dei punti d’appoggio, mai definitivi ma pur sempre capaci di salvarlo provvisoriamente dall’anarchia degli istinti. E, per la verità, in grado anche di fargli almeno baluginare un possibile indirizzo veritativo.
Sicuramente, però, ad avviso di Sandro Magister, l’opera che ha più instillato nella cultura italiana contemporanea una rivalutazione del politeismo è più letteraria che filosofica: sono “Le nozze di Cadmo e Armonia” di Roberto Calasso, del 1988, con la loro evocazione gloriosa della mitologia classica.
A dispetto del “disincanto del mondo”, descritto da Weber, la società moderna non appare, infatti, immune dall’opposta seduzione di un mondo nuovamente incantato, in cui alla realtà e alla durezza della disciplina della ricerca si sostituisce uno stato soporoso, fra il fantastico e l’onirico.
Alain de Benoist, pensatore della “nouvelle droite” francese, è il più acceso banditore di questo ritorno alla sacralità neopagana.
Per la corrente culturale da lui rappresentata il grande nemico è proprio il giudeocristianesimo con la sua idea “desacralizzante” della creazione. Se non c’è altro Dio all’infuori del Dio unico, infatti, le creature non avrebbero più nulla di divino e perfino gli astri, come dice la prima pagina della Genesi, null’altro sarebbero se non semplici “luminari” appesi dal Creatore alla volta celeste per segnare il giorno e la notte. Il mondo sarebbe definitivamente consegnato alla sua profanità. O panteismo o morte!, si potrebbe dire, ma il Nuovo Destro dimentica, non per caso, che anche il sacro è umano.
Osserva Leonardo Lugaresi, docente a Bologna e Parigi e specialista di cristianesimo antico: “Nel rimprovero mosso oggi al cristianesimo di essere responsabile della desacralizzazione del mondo, quella che torna in gioco, sotto nuove forme, non è altro che la vecchia accusa di ateismo mossa ai cristiani dei primi secoli”.
E aggiunge: “Come allora, anche per una certa mentalità neopagana di oggi il cristianesimo è nocivo perché ha tolto alla terra il suo incanto, i suoi dèi, e ha privato l’uomo di un rapporto religioso con la natura (rapporto che è strutturalmente soggettivo – n.d.r.). Di conseguenza, il nuovo paganesimo vuole guarire il mondo dalla “rottura monoteistica” (che è di tendenza oggettiva e oggettivante – n.d.r.), cioè restituirgli quella sacralità e divinità che il cristianesimo gli ha tolto”. Appunto!
La formula “rottura monoteistica” rimanda agli studi di un grande egittologo, il tedesco Jan Assmann, che ha indagato a fondo sulla novità rivoluzionaria introdotta dall’unico Dio della religione di Mosè rispetto al politeismo dell’Egitto dell’epoca. Non sorprende, quindi, che l’editrice il Mulino, nel pubblicare quest’anno dieci saggi affidati ad altrettanti autori sui dieci comandamenti del decalogo mosaico, abbia assegnato proprio ad Assmann il commento del “Non avrai altro Dio”.
Assmann non è un apologeta del politeismo. Ma vede nel monoteismo mosaico, fin dal suo nascere, un contrapporsi esclusivo e intollerante alle altre religioni. Tutti i monoteismi storicamente venuti alla luce, dall’ebraismo, al cristianesimo, all’islam, portano in sé, a suo giudizio, il veleno della violenza. E allora egli chiede ai monoteismi di superare i loro assoluti e “raggiungere il punto trascendentale grazie al quale diviene possibile la vera tolleranza”, di elevarsi cioè alla forma superiore di “sapienza religiosa” o di “religione profonda” incarnata da saggi e sapienti come Albert Schweitzer, il Mahatma Gandhi e Rabindranath Tagore; insomma, di elevarsi “all’ideale settecentesco di tolleranza espresso dal massone Lessing nella parabola dei tre anelli, nel racconto di Nathan il saggio”.
E cos’è questa se non la religione senza norme né dogmi dell’Illuminismo, con il suo Dio remoto? E a che cosa può aprire lo spazio, questa religione vaga, se non a un nuovo politeismo dell’arbitrio? Le domande poste da Sandro Magister ci interpellano tutti.
Lo scorso 13 settembre, nel ricevere il nuovo ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, dr Walter Jürgen Schmid, Papa Benedetto XVI ha alzato gli occhi dal testo scritto e ha così proseguito: “Molti uomini mostrano oggi un’inclinazione verso concezioni religiose più permissive anche per se stessi. Al posto del Dio personale del cristianesimo, che si rivela nella Bibbia, subentra un essere supremo, misterioso e indeterminato, che ha solo una vaga relazione con la vita personale dell’essere umano. Se però uno abbandona la fede verso un Dio personale, sorge l’alternativa di un “dio” che non conosce non sente e non parla. E, più che mai, non ha un volere. Se Dio non ha una propria volontà, il bene e il male alla fine non sono più distinguibili. L’uomo perde così la sua forza morale e spirituale, necessaria per uno sviluppo complessivo della persona. L’agire sociale viene dominato sempre di più dall’interesse privato o dal calcolo del potere”. Ma, siccome coll’interesse privato e i calcoli di potere non si dialoga e senza un dio con cui in qualche modo colloquiare l’uomo non può stare, lui stesso, l’uomo, quale dio creatore, si inventa idoli coi quali esprimere la sua potenza “divina” e nello stesso tempo ingannarla miserevolmente.
Dalle parole del Papa, sopra riportate, si capisce ancor più il motivo per cui oggi, per Sua Santità, papa Benedetto, “la priorità suprema e fondamentale” sia di riaprire a una umanità disorientata l’accesso a Dio, e “non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto”, il cui amore non può nemmeno essere costretto nell’odierna concezione di “religione”.
Un distacco incolmabile con l’altro dio, l’essere supremo, misterioso e indeterminato di cui oggi si discetta, il quale, anch’esso, nient’altro è se non un idolo collettivo, intellettualmente adeguato alle esigenze dei tempi e alle loro convenienze, utile a sopire momentaneamente le angosce intellettuali di alcuni raggruppamenti umani…
Però, proprio a partire da tali angosce, scavando appena un poco, se ne scoprono altre, ben più profonde e pericolose: che ne è di coloro che non hanno la “faccia di bronzo” di autoproclamarsi dèi e di crearsi (o aderire a) idolatrie, le quali comunque esigono il rispetto di alcune fondamentali regole? Per costoro resta valida l’ipotesi “politeista” surriportata oppure dobbiamo impostare in altro modo e su altre basi la nostra teoresi? Siamo certi che l’indifferentismo e il vuoto di aspirazioni e speranze, oggi imperanti, faccia pur sempre capo a qualche autoreferenziale “divinità”, sia pure inespressa, con conseguente creazione di idoli? A mio avviso il riferimento a divinità “altra” rimane e va mantenuto, ma si entra in un capitolo che andrebbe affrontato con ben altri mezzi, capacità, conoscenze e consapevolezze: il capitolo del Male fatto persona, che porta allo svuotamento dell’uomo, al farne un guscio vuoto all’interno, privato, perciò, di ogni relazione d’amore col suo Dio, al quale, a propria volta, riuscirebbe difficile fargli sentire tutto il calore del Suo infinito amore. Su questo sfondo, a mio avviso, vanno lette le decisioni di Benedetto XVI di istituire un nuovo dicastero in curia vaticana “per la nuova evangelizzazione” e di dedicare a questo stesso tema il sinodo dei vescovi del 2012, così come l’iniziativa di dialogo con i non credenti che ha chiamato “cortile dei gentili” e ha affidato al suo ministro della cultura, il cardinale Gianfranco Ravasi, per il quale nutro grande considerazione e amicizia.
18 Comments
Bergamo.info
La redazione di Bergamo Info saluta con grande entusiasmo il primo articolo del mitico Francesco Nosari
giuseppe purcaro
… ma le nostre radici, quelle di noi europei, non sono nel politeismo greco romano?
… riscopriamo le nostre radici…
miriam
Certo!, riscopriamo le nostre radici, non solo quelle politeiste, e chiediamoci anche perché il mondo greco-romano sia crollato in poo tempo davanti all'impetuoso avanzare del Cristianesimo (che fra l'altro dura da oltre duemila anni).
angelo
Mi interesserebbe che l'autore dell'articolo (difficile da leggere e capire in tutte le sue sotterranee implicazioni) spiegasse il perché di questa proliferazione di divinità individuali. Non basta dire, come si fa, che è colpa della secolarizzazione o dell'espandersi dell'individualismo: ci saranno pure delle cause, anche legate a fatti storici.
don angelo
Occorre ricostruire le comunità, specie quelle parrocchiali, attorno all'Eucaristia. Secondo me, riunire nuovamente il popolo attorno alla sacra mensa può avvenire soltanto attraverso una nuova ed efficace divulgazione della Parola di Dio, che deve diventare pane quortidiano settimanale di tutti. Oggetto di profonda e attualizzata meditazione.
Bergamo.info
Correggo: pane quotidiano e settimanale. don Angelo
Giuli
Ecco un articolo di rara profondità che chiede una lettura ripetuta ed una lunga riflessione. Credo però che individui il centro dell'agire di ogni cristiano, sia esso sacerdote o laico, principalmente dell'agire "politico", perchè se Dio è lontano se non vede, ogni azione è giustificabile ed è solo l'interesse immediato e di parte che diviene degno di essere raggiunto.
Mi interesserebbe molto potere leggere altri articoli anche con riguardo al rapporto tra etica e politica, magari, visto il coraggio del dott. Allevi, legandoli agli avvenimenti della nostra provincia e città.
angelomario
E' un articolo che avevo già letto e che adesso mi sto rileggendo, guardandolo oggi dopo aver letto per una settimana quello sulla globalizzazione (è come tornare a scuola, con le incazzature relative, quando si fa fatica a capire e ti fuma per niente il cervello. Però si tiene duro. Una specie di Università della terza età).
Il politeismo come lo intende il Nosari è praticamente diffuso in tutti noi, e riguarda tutti gli argomenti generali, globalizzazione e islamismo compresi, perché non ci si intende più su niente: per affermare che il cielo è blu devi aspettare che quello al quale lo dici ti dica che è vero, sperando che non ti dica che è violetto, perché se no devi andare in televisione a litigare. I dibattiti televisivi sono la verificazione del politeismo, che in realtà mi sembra la riproduzione moderna della Torre di Babilonia (Babele è Babilonia, diceva mia mamma quando spiegava che dire di mettere a posto "tutta quella Babilonia lì" voleva dire evitare una confusione come quella della Torre di Babele). Storia antica, mi pare, che si ripete. E il bello, o il brutto, è che sappiamo come è andata a finire.
marzio
Questo articolo ci dice quanto necessario e urgente sia riappropriarci della nostra cultura, al riguardo ben comprendendo e approfondendo la considerazione che nel substrato essa è ancora oggi sostanzialmente e strutturalmente cristiana, e quasi soltanto tale. Se così non fosse, se cioè le nostre radici, quelle di noi europei, stessero prevalentemente nel politeismo greco romano, come dice Giuseppe invitandoci a riscoprire tali nostre radici, la confusione babilonica cui sopra accenna Angelomario, generata dal politeismo nelle sue diverse forme e manifestazioni, avrebbe impedito il formarsi di una coscienza europea, che, guarda un po', è più forte di quella italiana in generale, la quale ultima è particolarmente debole là dove la Magna Graecia non è soltanto un ricordo storico. Il Cristianesimo protestante ha sicuramente contribuito a tale unitarietà di spirito europeo, più del cattolicesimo, per secoli legato a poteri temporali, e il rinascente politeismo attuale è segno indubitabile di pericolo di disfacimento della nostra civiltà, soprattutto europea. E alle viste ci sono le invasioni dall'Africa e dal Medio-Oriente… mala tempora currunt!
gigi
La mia può apparire un'osservazione un po' banale e farfallona: però, quando un uomo s'incontra con la donna giusta, altro che dio di se stesso si sente. E anche lei!
agostino
Ho letto quattro dei vostri articoli, i due ultimi commenti al Vangelo domenicale, entusiasmanti per la passione, il calore, la profondità e la praticità degli interventi, la complessa, bellissima e stupefacente analisi circa il rapporto fra globalizzazione e islamizzazione, e infine l'articolo qui sopra riprodotto. Riprendo quanto sostenuto nel mio commento al Vangelo della I^ Domenica di Quaresima: l'atto intenzionale di rendersi dèi di se stessi è atto "satanico", nel senso che persegue lo stesso tentativo operato da Satana di sostituirsi a Dio. Tentativo che è in sé totalizzante, di annullamento completo anche dell'anima dell'uomo, la quale diventa alimento del Diavolo tentatore, che è personificazione assoluta del male. Per tale via, anche l'uomo può diventare demonio, come recita la più volte richiamata situazione teatrale tragicomica detta pinoquartesca.
bartolo
Dèi di se stess? Guardate al Giappone, popolo sostanzialmente senza un dio la cui sequela abbia anche una valenza pubblica, la religione essendo racchiusa nel privato: non credete che la reazione popolare alle recenti tragedie, compresa quella nucleare, vada esaminata anche in tale ottica, quindi, vada almeno approfondita ulteriormente la posizione espressa nell'articolo in commento?
noislamisti
Il tragico terremoto giapponese ha minato la fede dei nipponici e di tutte le popolazioni del mondo nella tecnologia, fasullo idolo moderno, adorato da intere popolazioni che con cura hanno cercato di elevarlo sull’altare dell’infallibilità, nei suoi molteplici aspetti, multioculari, come esattamente detto nell'articolo: il paese con la massima conoscenza di terremoti e tsunami e con la massima competenza antisismica, il paese con la più alta quota di centrali atomiche pro capite dopo la Francia e con la più vasta esperienza di danni atomici non è riuscito, disponendo dei tecnici più esperti del mondo, a controllare i suoi reattori atomici. L'idolo in cui si riconoscevano intere popolazioni è crollato. Perché, noi, dovremmo credere a chi promette che altri, meno esperti, siano invece capaci di farlo? Costoro creerebbero idoli in cui nemmeno ci si potrebbe riconoscere, perchè l'idolo abbisogna comunque di una massa critica di "creatori idolatrici". Ed è venuta certamente meno.
Inoltre, perchè dovremmo idolatrare una tecnologia che si diversifica secondo le singole competenze umane? Proprio questo ci dice che tale idolatria è stupidità pura, perché nemmeno di idolo in qualche modo unitario si può parlare. La constatazione di cui sopra dovrebbe aiutare a riflettere, rivolgendoci a “luci” diverse da quelle tecnologiche, a “luci” eterne, capaci di trasfigurare l’uomo, di risanarlo e non di bruciarne le viscere. Però, è un po' amaro, ma ricalco le continue esortazioni di Papa Benedetto, ci vorrebbero anche sacerdoti in grado di cogliere il significato profondo di questi eventi e indirizzarli, secondo logica e cuore, da parte "Altra".
Giuseppe
Cosa differenzia certi santoni (es. Sai Baba) dagli idoli?
Karl Heinz Treetball
Il Papa e le derive della religione "portatile"
La tentazione del dio fai-da-te per eludere il mistero
Mosè parla «faccia a faccia» con l’Altissimo, «come uno parla con il suo amico». Intanto, il popolo si prostra davanti «a un toro che mangia erba» (è la bellissima ironia del Salmo 106, v. 20). Su quello che accadde subito dopo si è soffermata la catechesi che Benedetto XVI ha pronunciato ieri, sul celebre episodio biblico del «vitello d’oro». Il popolo ha ceduto all’impazienza e alla demoralizzazione: «Fateci vedere qualcosa». Non importa se si tratta di qualcosa di meno alto, di meno puro, di meno assoluto del vero Dio. Dateci un pretesto per festeggiare ed essere felici, insomma, e ci basta. Dio non si vede, di Mosè non c’è più traccia. Dateci un dio portabile, una religione sostenibile. Alla tentazione si cede sempre in due: gli umori del popolo che chiede pane e giochi, da una parte, i dispensatori del sacro a buon mercato dall’altra. Storia infinita. I venditori di almanacchi, amuleti, divi fai-da-te, eventi toccareper- credere, sono sempre pronti. Pensatori di complemento scrivono i testi, arredatori di grido confezionano icone. Un po’ sacre (da conservare un brivido d’infinito), un po’ profane (è la comunicazione, bellezza): con l’uso, la differenza non si vedrà più di tanto. Si comincia con «la materia di cui sono fatti i sogni», si finisce con le cromature di una berlina da brivido. (Questa non mangia erba, mangia strada: ma l’idea è quella). La fede stessa non è mai al riparo da questa debolezza, che induce, nei momenti della stanchezza e della prova quando sembra che più niente cammini davanti a noi, la tentazione di 'farsi un dio' più vicino: a costo di mettere i paramenti a un dio di bronzo (che non mangia neppure l’erba).
«È questa una tentazione costante del cammino di fede – dice chiaramente il Papa –: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti». L’espediente può sembrare persino innocuo, sulle prime: si tratta di venire incontro alla gente, di dare concretezza al mistero. Purtroppo, la deriva di un 'dio al consumo' è micidiale: non hai idea di cosa finirà nel catalogo. Un toro, è ancora niente. Di qui, la bellissima 'collera di Dio'. Passione pura, ogni volta. E struggimento irrevocabile, per questo inizio dell’autodistruzione della creatura. Ma qui viene anche il bello della storia. Sorpresa nella sorpresa, sulla quale insiste astutamente il commento del Papa: riprendendo l’astuzia del testo (che rispecchia, a sua volta, l’astuzia di Dio).
Mosè, che non era certo uno 'tenero' col popolo, in quel preciso momento, prende ostinatamente le difese del popolo. «Lasciali perdere – lo provoca Dio – farò di te una grande nazione». «Vuoi che gli altri dicano che hai liberato questo popolo dalla schiavitù – replica Mosè – per poi farli perire fra i sassi del deserto, aggiungendo la beffa all’abbandono?». «È a loro che Ti sei promesso – conclude Mosè – è a loro che devi dare un futuro. Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto». Ragazzi, così si prega, quando ti è affidato un popolo. Questo significa mettersi in mezzo, e 'fronteggiare' anche Dio, per amore del popolo. Mosè lo fa, perché sa che il suo azzardo corrisponde esattamente all’intenzione di Dio. In ogni modo, l’azzardo c’è tutto. Il Figlio sigillerà per sempre questo azzardo, conclude il Papa, tra Dio e Dio. Quando erano al sicuro, com’è giusto, Gesù incalzava i suoi discepoli con la richiesta di fedeltà a ogni costo. Nel momento del pericolo reale, però, quando le guardie arrivano, dice: «Laciateli andare, prendete me». Il popolo è certamente stolto quando cede all’idolo, e chi ne ha cura – non senza essersi purificato fino a togliersi la pelle – deve ruvidamente fronteggiare una simile stoltezza. Ma dalle guide che Dio manda ad ogni generazione – quelle che hanno intelligenza e follia sufficienti per onorare l’incarico – Dio si aspetta che abbiano fegato per fronteggiare anche l’Altissimo, nel momento del pericolo, in favore del popolo. Niente a che vedere, insomma, con 'gadget' e 'grida' a buon mercato.
Pierangelo Sequeri da http://www.avvenire.it
Kamella Scemì
BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE in Piazza San Pietro
Mercoledì, 15 giugno 2011
Cari fratelli e sorelle,
nella storia religiosa dell’antico Israele, grande rilevanza hanno avuto i profeti con il loro insegnamento e la loro predicazione. Tra di essi, emerge la figura di Elia, suscitato da Dio per portare il popolo alla conversione. Il suo nome significa «il Signore è il mio Dio» ed è in accordo con questo nome che si snoda la sua vita, tutta consacrata a provocare nel popolo il riconoscimento del Signore come unico Dio. Di Elia il Siracide dice: «E sorse Elia profeta, come un fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola» (Sir 48,1). Con questa fiamma Israele ritrova il suo cammino verso Dio. Nel suo ministero, Elia prega: invoca il Signore perché riporti alla vita il figlio di una vedova che lo aveva ospitato (cfr 1Re 17,17-24), grida a Dio la sua stanchezza e la sua angoscia mentre fugge nel deserto ricercato a morte dalla regina Gezabele (cfr 1Re 19,1-4), ma è soprattutto sul monte Carmelo che si mostra in tutta la sua potenza di intercessore quando, davanti a tutto Israele, prega il Signore perché si manifesti e converta il cuore del popolo. È l’episodio narrato nel capitolo 18 del Primo Libro dei Re, su cui oggi ci soffermiamo.
Ci troviamo nel regno del Nord, nel IX secolo a.C., al tempo del re Acab, in un momento in cui in Israele si era creata una situazione di aperto sincretismo. Accanto al Signore, il popolo adorava Baal, l’idolo rassicurante da cui si credeva venisse il dono della pioggia e a cui perciò si attribuiva il potere di dare fertilità ai campi e vita agli uomini e al bestiame. Pur pretendendo di seguire il Signore, Dio invisibile e misterioso, il popolo cercava sicurezza anche in un dio comprensibile e prevedibile, da cui pensava di poter ottenere fecondità e prosperità in cambio di sacrifici. Israele stava cedendo alla seduzione dell’idolatria, la continua tentazione del credente, illudendosi di poter «servire a due padroni» (cfr Mt 6,24; Lc 16,13), e di facilitare i cammini impervi della fede nell’Onnipotente riponendo la propria fiducia anche in un dio impotente fatto dagli uomini.
È proprio per smascherare la stoltezza ingannevole di tale atteggiamento che Elia fa radunare il popolo di Israele sul monte Carmelo e lo pone davanti alla necessità di operare una scelta: «Se il Signore è Dio, seguiteLo. Se invece lo è Baal, seguite lui» (1Re 18, 21). E il profeta, portatore dell’amore di Dio, non lascia sola la sua gente davanti a questa scelta, ma la aiuta indicando il segno che rivelerà la verità: sia lui che i profeti di Baal prepareranno un sacrificio e pregheranno, e il vero Dio si manifesterà rispondendo con il fuoco che consumerà l’offerta. Comincia così il confronto tra il profeta Elia e i seguaci di Baal, che in realtà è tra il Signore di Israele, Dio di salvezza e di vita, e l’idolo muto e senza consistenza, che nulla può fare, né in bene né in male (cfr Ger 10,5). E inizia anche il confronto tra due modi completamente diversi di rivolgersi a Dio e di pregare.
I profeti di Baal, infatti, gridano, si agitano, danzano saltando, entrano in uno stato di esaltazione arrivando a farsi incisioni sul corpo, «con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue» (1Re 18,28). Essi fanno ricorso a loro stessi per interpellare il loro dio, facendo affidamento sulle proprie capacità per provocarne la risposta. Si rivela così la realtà ingannatoria dell’idolo: esso è pensato dall’uomo come qualcosa di cui si può disporre, che si può gestire con le proprie forze, a cui si può accedere a partire da se stessi e dalla propria forza vitale. L’adorazione dell’idolo invece di aprire il cuore umano all’Alterità, ad una relazione liberante che permetta di uscire dallo spazio angusto del proprio egoismo per accedere a dimensioni di amore e di dono reciproco, chiude la persona nel cerchio esclusivo e disperante della ricerca di sé. E l’inganno è tale che, adorando l’idolo, l’uomo si ritrova costretto ad azioni estreme, nell’illusorio tentativo di sottometterlo alla propria volontà. Perciò i profeti di Baal arrivano fino a farsi del male, a infliggersi ferite sul corpo, in un gesto drammaticamente ironico: per avere una risposta, un segno di vita dal loro dio, essi si ricoprono di sangue, ricoprendosi simbolicamente di morte.
Ben altro atteggiamento di preghiera è invece quello di Elia. Egli chiede al popolo di avvicinarsi, coinvolgendolo così nella sua azione e nella sua supplica. Lo scopo della sfida da lui rivolta ai profeti di Baal era di riportare a Dio il popolo che si era smarrito seguendo gli idoli; perciò egli vuole che Israele si unisca a lui, diventando partecipe e protagonista della sua preghiera e di quanto sta avvenendo. Poi il profeta erige un altare, utilizzando, come recita il testo, «dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, al quale era stata rivolta questa parola del Signore: “Israele sarà il tuo nome”» (v. 31). Quelle pietre rappresentano tutto Israele e sono la memoria tangibile della storia di elezione, di predilezione e di salvezza di cui il popolo è stato oggetto. Il gesto liturgico di Elia ha una portata decisiva; l’altare è luogo sacro che indica la presenza del Signore, ma quelle pietre che lo compongono rappresentano il popolo, che ora, per la mediazione del profeta, è simbolicamente posto davanti a Dio, diventa “altare”, luogo di offerta e di sacrificio.
Ma è necessario che il simbolo diventi realtà, che Israele riconosca il vero Dio e ritrovi la propria identità di popolo del Signore. Perciò Elia chiede a Dio di manifestarsi, e quelle dodici pietre che dovevano ricordare a Israele la sua verità servono anche a ricordare al Signore la sua fedeltà, a cui il profeta si appella nella preghiera. Le parole della sua invocazione sono dense di significato e di fede: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose sulla tua parola. Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!» (vv. 36-37; cfr Gen 32, 36-37). Elia si rivolge al Signore chiamandolo Dio dei Padri, facendo così implicita memoria delle promesse divine e della storia di elezione e di alleanza che ha indissolubilmente unito il Signore al suo popolo. Il coinvolgimento di Dio nella storia degli uomini è tale che ormai il suo Nome è inseparabilmente connesso a quello dei Patriarchi e il profeta pronuncia quel Nome santo perché Dio ricordi e si mostri fedele, ma anche perché Israele si senta chiamato per nome e ritrovi la sua fedeltà. Il titolo divino pronunciato da Elia appare infatti un po’ sorprendente. Invece di usare la formula abituale, “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, egli utilizza un appellativo meno comune: «Dio di Abramo, di Isacco e d’Israele». La sostituzione del nome “Giacobbe” con “Israele” evoca la lotta di Giacobbe al guado dello Yabboq con il cambio del nome a cui il narratore fa esplicito riferimento (cfr Gen 32,31) e di cui ho parlato in una delle scorse catechesi. Tale sostituzione acquista un significato pregnante all’interno dell’invocazione di Elia. Il profeta sta pregando per il popolo del regno del Nord, che si chiamava appunto Israele, distinto da Giuda, che indicava il regno del Sud. E ora, questo popolo, che sembra aver dimenticato la propria origine e il proprio rapporto privilegiato con il Signore, si sente chiamare per nome mentre viene pronunciato il Nome di Dio, Dio del Patriarca e Dio del popolo: «Signore, Dio […] d’Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele».
Il popolo per cui Elia prega è rimesso davanti alla propria verità, e il profeta chiede che anche la verità del Signore si manifesti e che Egli intervenga per convertire Israele, distogliendolo dall’inganno dell’idolatria e portandolo così alla salvezza. La sua richiesta è che il popolo finalmente sappia, conosca in pienezza chi davvero è il suo Dio, e faccia la scelta decisiva di seguire Lui solo, il vero Dio. Perché solo così Dio è riconosciuto per ciò che è, Assoluto e Trascendente, senza la possibilità di mettergli accanto altri dèi, che Lo negherebbero come assoluto, relativizzandoLo. È questa la fede che fa di Israele il popolo di Dio; è la fede proclamata nel ben noto testo dello Shema‘ Israel: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze» (Dt 6,4-5). All’assoluto di Dio, il credente deve rispondere con un amore assoluto, totale, che impegni tutta la sua vita, le sue forze, il suo cuore. Ed è proprio per il cuore del suo popolo che il profeta con la sua preghiera sta implorando conversione: «questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!» (1Re 18,37). Elia, con la sua intercessione, chiede a Dio ciò che Dio stesso desidera fare, manifestarsi in tutta la sua misericordia, fedele alla propria realtà di Signore della vita che perdona, converte, trasforma.
Ed è ciò che avviene: «Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e disse: “Il Signore è Dio, il Signore è Dio”» (vv. 38-39). Il fuoco, questo elemento insieme necessario e terribile, legato alle manifestazioni divine del roveto ardente e del Sinai, ora serve a segnalare l’amore di Dio che risponde alla preghiera e si rivela al suo popolo. Baal, il dio muto e impotente, non aveva risposto alle invocazioni dei suoi profeti; il Signore invece risponde, e in modo inequivocabile, non solo bruciando l’olocausto, ma persino prosciugando tutta l’acqua che era stata versata intorno all’altare. Israele non può più avere dubbi; la misericordia divina è venuta incontro alla sua debolezza, ai suoi dubbi, alla sua mancanza di fede. Ora, Baal, l’idolo vano, è vinto, e il popolo, che sembrava perduto, ha ritrovato la strada della verità e ha ritrovato se stesso.
Cari fratelli e sorelle, che cosa dice a noi questa storia del passato? Qual è il presente di questa storia? Innanzitutto è in questione la priorità del primo comandamento: adorare solo Dio. Dove scompare Dio, l’uomo cade nella schiavitù di idolatrie, come hanno mostrato, nel nostro tempo, i regimi totalitari e come mostrano anche diverse forme del nichilismo, che rendono l’uomo dipendente da idoli, da idolatrie; lo schiavizzano. Secondo. Lo scopo primario della preghiera è la conversione: il fuoco di Dio che trasforma il nostro cuore e ci fa capaci di vedere Dio e così di vivere secondo Dio e di vivere per l’altro. E il terzo punto. I Padri ci dicono che anche questa storia di un profeta è profetica, se – dicono – è ombra del futuro, del futuro Cristo; è un passo nel cammino verso Cristo. E ci dicono che qui vediamo il vero fuoco di Dio: l’amore che guida il Signore fino alla croce, fino al dono totale di sé. La vera adorazione di Dio, allora, è dare se stesso a Dio e agli uomini, la vera adorazione è l’amore. E la vera adorazione di Dio non distrugge, ma rinnova, trasforma. Certo, il fuoco di Dio, il fuoco dell’amore brucia, trasforma, purifica, ma proprio così non distrugge, bensì crea la verità del nostro essere, ricrea il nostro cuore. E così, realmente vivi per la grazia del fuoco dello Spirito Santo, dell’amore di Dio, siamo adoratori in spirito e in verità. Grazie.
Karl Heinz Treetball
Il Papa: l’uomo, il soprannaturale, e il Dio della rivelazione. Antidoto all’idolatria
Riflettendo sulla figura e sulle vicende del profeta Elia, ieri il Papa ha affrontato, in particolare, il tema dell’idolatria, dicendo che è un atteggiamento non solo di alcuni antichi, ma anche di diversi uomini contemporanei, credenti e non credenti. Gli idoli degli ultimi due secoli e/o di oggigiorno, sono per esempio, la Razza, il Comunismo, il Nazismo, la Natura, la Scienza, la Politica, ecc., cioè le varie divinità a cui le diverse ideologie costruiscono altari, oppure il piacere, il sesso, la droga, il successo, i soldi, ecc.
Ora, poiché Dio non è manipolabile e i suo doni li concede per grazia, il credente talvolta cerca «qualcosa […] che si può gestire con le proprie forze», e si illude di poter «servire a due padroni», laddove invece «all’assoluto di Dio, il credente deve rispondere con un amore assoluto, totale, che impegni tutta la sua vita, le sue forze, il suo cuore».
Quanto al non credente, ha proseguito Benedetto XVI, «dove scompare Dio» spesso «l’uomo cade nella schiavitù di idolatrie, come hanno mostrato […] i regimi totalitari e come mostrano anche diverse forme del nichilismo, che rendono l’uomo dipendente da idoli, da idolatrie; lo schiavizzano»: si pensi, in particolare, alle dipendenze dalla droga e dal sesso. Insomma, senza generalizzare ma non raramente, è vero ciò che hanno rilevato diversi filosofi e teologi, e tra questi ultimi ciò che ha detto con efficacia Karl Barth, secondo cui «quando il cielo si svuota di Dio, la terra si riempie di idoli».
E si può connettere questa riflessione del Papa con la questione dell’atto di fede. Infatti, la fede nell’esistenza e nel soccorso di qualcosa di sanante, salvifico e/o felicitante – è in definitiva questo che l’uomo cerca dagli idoli – è connaturale, anche secondo un filosofo come Kant che riteneva impossibile un discorso razionale su ciò che è soprannaturale. In questo senso, persino le culture razionalistiche hanno un sottofondo misterico (per esempio, durante l’Illuminismo si diffondono le sette esoteriche, e durante il Positivismo si diffonde lo spiritismo).
In ogni caso, gli uomini di tutti i tempi, non di rado, cadono appunto nell’idolatria. Così, aveva ragione un acuto pensatore come Chesterton, il quale diceva che il dramma dell’uomo moderno, spesso, non è quello di non credere a nulla, bensì di credere a tutto. Si pensi, in particolare, al gigantesco giro d’affari di maghi, cartomanti, ecc., a cui si rivolgono non solo persone poco istruite, bensì anche professionisti, politici e manager affermati. Insomma, l’uomo contemporaneo non di rado crede a qualcosa di soprannaturale, ma sovente trascura il Dio della Rivelazione.
Parimenti, ognuno ha in fondo il suo dio, un fine ultimo globale della propria esistenza – che a volte cambia nel corso della sua vita – in rapporto a cui organizza la propria condotta. Uno di quelli già menzionati, o altri ancora, o se stesso. Chi dice di non avere mai un fine ultimo e di voler sempre assecondare il suo umore momentaneo, ha in realtà come fine, appunto, il seguire il proprio stato d’animo del momento.
Ovviamente qui non è possibile confrontare questi fini ultimi con il Dio cristiano. Ma è almeno possibile rivolgere un invito affettuoso ai non credenti: cercate di conoscerLo, come fa chi cerca un tesoro senza sapere se esista o no. Non accontentavi della catechesi – necessariamente elementare e stringata – ascoltata da bambini, o della rappresentazione, spesso caricaturale, del Dio cristiano che viene fatta dai media.
Giacomo Samek Lodovici da http://www.avvenire.it
Kamella Scemì
IL DIO DI LEGNO
“Se non riesci più a credere nel Dio in cui hai creduto da sempre, forse ciò proviene da qualcosa di distorto presente nella tua fede. Devi sforzarti, allora, di capire che cosa chiami Dio. Se uno smette di credere nel suo Dio di legno, questo non significa che non vi sia alcun Dio, ma solo che il vero Dio non è di legno”.
C’è una scenetta ironica nel libro del profeta Isaia, cesellata nei particolari e ripresa quasi dal vivo. Un falegname è alle prese coi suoi strumenti per modellare da un tronco una statua divina: alla fine è soddisfatto per l’opera delle sue mani, ma è anche stanco e affamato. Prende il legname avanzato, lo mette sul focolare, si cuoce un arrosto e poi si accomoda beato a godersi il tepore. Ben pasciuto e riposato, si ricorda della statua sacra che ha plasmato. Eccolo, allora, prostrato a invocare: «Salvami, perché tu sei il mio dio!» (così in Isaia 44, 13-17). È questo l’idolo, il «Dio di legno» a cui allude il grande scrittore russo Tolstoj nel brano che oggi abbiamo proposto. Facile è fare del sarcasmo sull’idolatria, sulla superstizione, sulla magia che anche ai nostri giorni avvincono folle di persone, per non parlare poi di certi idoli mentali, idee banali e vane che però sono piantate come chiodi in molti cervelli. Eppure, talora accade anche a chi è seriamente religioso di entrare in crisi nei confronti del proprio Dio. Certo, come accadde ad Abramo e a Giobbe, può essere Dio stesso che si cela o provoca e prova la nostra fedeltà per vagliarla. Ma spesso è solo perché anche noi, piano piano, siamo scivolati verso un Dio di legno, sostituendolo al Dio vivente. Demoliamo quella statua e cerchiamo il vero volto divino.
Gianfranco Ravasi, dal Mattutino di ieri su Avvenire.