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Roberto

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    Gianfranco

    Quattro vici per il 2012
    DIZIONARIO DI FUTURO di Sua Eminenza Reverendissima il signor cardinale GIANFRANCO RAVASI
    «Periodo fatto di 365 (o 366) delusioni». Così si legge alla voce “Anno” del malizioso “Dizionario del diavolo”, approntato nel 1906 da Ambrose Bierce, stravagante e vagabondo scrittore americano. E se stiamo ai commenti che si raccolgono per strada o a quelli dei giornali, sarebbe questo il pronostico più attendibile anche per il 2012, al quale viene già la tentazione di applicare come motto la “nona beatitudine” coniata da un altro autore, l’inglese settecentesco Alexander Pope: «Beato colui che non si aspetta nulla, perché non sarà mai deluso!». Noi, invece, vorremmo andare controcorrente infilando in un ideale antitetico “Dizionario dell’angelo” quattro voci di successo per il nuovo pur difficile anno. La prima è la parola “sobrietà”. Certo, essa ha anche il volto duro del sacrificio, della rinuncia, della privazione. Ma, dopo anni di spreco, di privilegi, di ostentazione, di urla, di sfoggio, di escort, si ritorna alla misura, alla semplicità, all’essenzialità, al linguaggio pacato. Ma sì, ritorna in scena quell’ultima virtù cardinale che era stata ridotta a cenerentola: la “temperanza”, che non regola solo il regime della nutrizione, ma anche della sensualità. Vale per tutti noi adulti il monito che san Paolo rivolgeva al discepolo Tito: «Esorta i più giovani ad essere sobri, offrendo te stesso come esempio!» (2,6-7). Ecco, però, un’obiezione: cosa dire di fronte a chi – nonostante tutto – incassa ancora retribuzioni o pensioni di centinaia di migliaia di euro e trattamenti di fine rapporto di sei o sette milioni? E qui entra in scena un’altra parola che ha persino generato una sorta di movimento corale planetario, quello degli “indignati”: lo “sdegno”. Badate bene: se l’ira è un vizio capitale devastante, lo sdegno autentico è una virtù, perché è un appassionato e coerente schierarsi dalla parte della giustizia. Indignati contro la corruzione, la violenza, l’oppressione sono i profeti biblici. Del Signore nella Bibbia si dice letteralmente che ha un ‘af, cioè un “naso” sbuffante perché mal sopporta il male, e non dimentichiamo la figura di Cristo che impugna la frusta sferzando i mercanti… Detto altrimenti, lo sdegno vero e non retorico altro non è che un ritorno alla morale. Sulla via della giustizia riabilitata giungiamo alla terza voce del nostro reve dizionario: “solidarietà” o, se si vuole, “carità fraterna”. Il cristianesimo ha giocato qui la sua autenticità: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Giovanni 13,35). E l’autore della Lettera agli Ebrei continuava: «Perseverate nell’amore fraterno e non dimenticate l’ospitalità dello straniero» (13,1-2). Ma era già l’antica legge biblica a esortare: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello bisognoso, non indurire il tuo cuore e non chiudere la tua mano!» (Deuteronomio 15,7). Non sono necessari commenti. Siamo giunti all’ultima voce di questo “Dizionario dell’angelo”. Proponendola, siamo pronti a subire l’accusa di utopia o di retorica. Eppure, se è vero che bisogna vivere con semplicità, è necessario pensare con grandezza. E così proponiamo alla fine la parola “speranza”, nonostante il pessimismo sempre in agguato. Il filosofo Ernst Bloch, che sul tema ha scritto ben tre tomi, ricordava che non è sempre vero il proverbio «Finché c’è vita, c’è speranza», perché tanti viventi sani sono disperati o sfiduciati. È più vero, diceva (ed era ateo), che «finché c’è fede, c’è speranza». E sperare, con costanza e a testa bassa è, certo, difficile. Più facile è disperare, ed è la grande tentazione a cui non cedere.
    Eitoriale da Avvenire del 3 gennaio 2012.

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